Dagli arresti ai conflitti: dopo Copenaghen

dopo copenaghenTannie Nyboe e Stine Gry Jonassen sono stati rilasciati. Erano stati arrestati a Copenhagen insieme a Tadzio Mueller, (rilasciato il 19), attivista CJA (Climate Justice Action) nel cruento rastrellamento della polizia danese a Christiania il 14 dicembre scorso, mentre è ancora in carcere il ricercatore italiano Luca Tornatore (Luca Tornatore 211275 – Vestre Faengsel – Vigerslev allè 1D – 2450 KbhSvolta – Copenhagen – Danmarkt.

Questo l’indirizzo per mandare lettere telegrammi o cartoline in carcere a Luca!!! riempiamo il carcere di Copenhagen di libertà).

Quanto dev’essere forte il timore dei grandi della terra, ma anzitutto dei governi europei, per il fatto che quello sceso in piazza contro il COP15 sia un movimento costituente, che rifiuta trattati e compromessi e si batte per la sovranità climatica e biologica.

E’ così infatti: più di 100.000 donne uomini e bambini hanno per una settimana dato vita ad una delle più grandi e variopinte proteste contro gli accordi al ribasso sul climate change che eventualmente fossero stati firmati; neanche questo è successo, perché come si sa, il profondo e calcolato disaccordo tra Cina e USA e la miserabile politica della presidenza svedese del COP 15 hanno partorito un impegno di massima per la riduzione delle emissioni di CO2 non vincolante e soprattutto non nella forma di un trattato.

Dall’altra parte un movimento che nasce con lo slogan “system change not climate change” ha fatto piazza pulita di qualsiasi ambiguità che sia le ONG ambientaliste che i verdi europei (tranne forse gli ecologisti tedeschi) si trascinano da anni sul terreno dell’azione contro il cambiamento climatico e la distruzione capitalista del pianeta.

Quello che Copenhagen ha dimostrato è da un lato la realtà di un’alternativa al dominio globale, ben sintetizzata da Evo Morales, “el socialismo”, dall’altra l’emergenza di un movimento che si è finalmente liberato, tranne per la sua parte moderata, dell’idea di “sinistra” coniugata all’ecologismo.

E’ piuttosto lo slogan scritto su alcuni striscioni “fck, fck, fck capitalism” e contrapposto a quel “tick tick tick” che dovrebbe significare il countdown verso la catastrofe degli ecosistemi, a campeggiare nelle proteste della scorsa settimana e nella coscienza comune dei popoli africani e latinoamericani anzitutto, sottoposti per secoli allo scippo di risorse in terre di conquista del liberismo.

E’ insomma l’idea lavorista di una mediazione tra esigenze del capitale e della cittadinanza ad esser andata in soffitta a Copenhagen, per cui i signori della terra e le ONG negoziatrici sono rimasti davvero soli a blaterare di quote e di debito, mentre l’urgenza del cambiamento climatico impone un agire a tutto campo che sia quantomeno all’altezza delle forme in cui si manifesta la crisi globale del liberismo.

Perché tra le alternative, che soprattutto gli USA stanno perseguendo, per uscire dalla fase acuta della malattia finanziaria del libero mercato, c’è l’economia “verde” che Obama ha pubblicizzato nei mesi scorsi e che sarà il campo su cui si giocherà la partita dei players globali, Cina in primis, e su cui sia i paesi meno responsabili dell’inquinamento, quelli del cosiddetto G77, che l’Unione Europea misureranno le rispettive politiche pubbliche.

Conviene dunque che i movimenti che si battono per un mutamento radicale del sistema economico ed ecologico adottino il paradigma della critica dell’economia politica, per produrre pratiche di conflitto in cui è, mai come oggi, in discussione l’assetto globale dei poteri, politico, poliziesco e delle istituzioni, ONU anzitutto, che dovrebbero garantire l’imparzialità delle decisioni sulla sopravvivenza delle future generazioni.

Tadzio Mueller e Alexis Passadakis hanno lanciato qualche tempo fa 20 tesi contro il capitalismo verde, che vale la pena di cominciare a discutere, soprattutto per evidenziarne, oltre i punti di accordo, quelli di disaccordo.

Dunque, la critica del liberismo finanziario è di certo il punto di attacco di una strategia dei movimenti anarcoecoradicalecologisti che , dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime denunciano la crisi del turbo capitalismo mondiale.

Il riconoscimento del panorama biopolitico in cui si situa oggi la vita umana a rischio sul pianeta, pone i movimenti in un punto privilegiato per osservare l’enorme contraddizione tra bisogni ecologici (e bioeconomici) e accumulazione capitalistica.

Questa contraddizione porta a definire un nuovo welfare che non ha più niente a che fare con la società del lavoro, bensì con quella della libera produzione di sé e del mondo, in una riappropriazione collettiva di spazi, tempi e ricchezza, nella forma del reddito.

A differenza delle tesi, ciò che oggi non si può dire è se i salari delle genti impiegate nell’economia “verde” scenderanno o saliranno, poiché molto dipenderà dal compromesso che la “politica mondiale” sarà in grado di realizzare tra istanze biopolitiche della produzione (biocarburanti, materie prime) e ciclo della distribuzione (infrastrutture ecologiche, modalità di consumo energetico, etc).

Dunque, per quanto uno “stato capitalista verde” possa essere autoritario, al suo interno come all’esterno i conflitti per le risorse, per l’accesso al reddito e per la distribuzione dell’energie, nel caso la quota di rinnovabili tenda ad aumentare, si accentueranno e la stabilità non potrà in ogni caso essere garantita.

A differenza di quanto affermato nelle tesi, è saltata l’analogia tra l’attuale crisi del neoliberismo e quella degli anni ’30 del XX secolo, sia nella sussunzione formale che reale della società al capitale, per cui la critica all’economia verde va portata meno sul piano della difesa autarchica delle risorse dei singoli stati- nazione che sull’inversione del ciclo del libero mercato in mercato libero, in cui i paesi finora soggetti alle politiche globali possono far valere le risorse come ricchezze.

Reclamare la “decrescita” e insieme nuove relazioni di cooperazione “dal basso” significa non considerare davvero il mutamento di paradigma che le società post-fordiste, oggi in America Latina e in India, domani in Africa e in estremo oriente impongono, nel passaggio dalla produzione materiale a quella immateriale. E’ infatti sulle possibili alternative alla società del capitale e del lavoro che bisognerebbe confrontarsi in una prassi eco radicale, non sul modo migliore di tornare indietro nel tempo per frenare il capitalismo, considerando il fatto cruciale che il capitale non può subordinare l’insieme delle relazioni sociali nel passaggio all’economia delle fonti rinnovabili.

Questo confronto può essere una base di partenza per una discussione all’interno dei movimenti di Copenhagen, da CJA a Rising Tide, ad un anarcoecologismo non nostalgico. Perché non proviamo a farlo partire coinvolgendo anche la formazione, la ricerca e l’istruzione che di un welfare delle risorse rinnovabili sono i fondamenti?

Sembra in ogni caso essere questo il reale campo di indagine di una intelligenza collettiva all’altezza dei tempi, oggi in grado, forse più di qualche anno fa, di produrre conflitto nel XXI secolo.

 

 

Opossum3e

Laboratorio filosofico “sofiaroney.org”

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