Deliri di mezza estate.

D’estate, si sa, il caldo e il solleone possono incidere negativamente sulla lucidità mentale. Ne sono una prova le numerose dichiarazioni e proposte rilasciate in questi giorni, nel momento di maggior tensione speculativa e finanziaria. Qui ne commentiamo solo alcune.
Cominciamo dalla proposta di inserire nel dettame costituzionale l’obbligo del pareggio di bilancio. Si tratta di vincolare la politica fiscale ad un obiettivo rigido “stupido” (come disse Prodi anni fa a proposito dei vincoli posti dal Patto di Stabilità di Amsterdam). La stupidità rimarrebbe tale se ci si limitasse a imporre il pareggio di bilancio come obiettivo prioritario della politica fiscale. Si traduce invece in delirio farneticante se tale obiettivo viene inserito d’ufficio nella Costituzione.


Con l’eccezione della Germania, mai, infatti, si è visto che in una Costituzione, la madre di tutte le leggi, si fissi in modo aprioristico un obiettivo, per di più intermedio, di politica economica. In parte, un tentativo del genere, era stato tentato, senza successo, nel dibattito sulla Costituzione Europea, quando si voleva a tutti i costi inserire l’art. 105 del Trattato di Maastricht nella III parte. L’art. 105 è quello che fissa in modo irremovibile gli obiettivi di politica monetaria della Bce; un tasso d’inflazione annuo non superiore al 2%. Tale vincolo è stato una delle cause della minor crescita europea nel decennio passato, subordinando ad esso altri obiettivi strategici fondamentali, quali la costruzione di una politica fiscale comune, una politica sociale e occupazionale, una politica di innovazione e di salvaguardia ambientale.
Non stupisce che tali obiettivi, a parole sancite dalla Strategia di Lisbona, non siano mai stati raggiunti. La ragione è sempre la stessa di dieci anni fa: la fede nel credo neo-liberista, anche di fronte al manifesto fallimento delle sue politiche. Ciò che colpisce è che a questo credo, stando alle dichiarazioni di alcuni senatori del PD e al silenzio (assordante) dei sindacati,  si sia accodata anche un ampio arco di forze che dalla destra arriva sino a Veltroni.

Negli incontri che si svolgono ogni estate a Cortina per pochi intimi, ma cassa di risonanza mediatica per l’intellighenzia e la stampa di regime, lo scorso 7 agosto Paolo Mieli, a proposito del deficit pubblico italiano e di come risanarlo, scimmiottando la Bce e lanciando un assist a Tremonti, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “Vendere tutto, tranne le Tofane e il Colosseo e per la Grecia il Partenone. Avremo i vantaggi di incassare il ricavato di questa vendita ed eliminare la burocrazia”. “Sì all’intervento dei privati –prosegue il nostro – basta che sia tutto sottoposto a leggi severe. Se vendiamo una spiaggia, delle caserme, delle ex-regge, tutto quello che abbiamo da vendere, sia venduto: i privati hanno dato prova di buona gestione. Non c’è un solo caso di privato che abbia comprato un bene pubblico e lo abbia rovinato”.  Mieli propone la privatizzazione “assoluta”, in linea con uno dei punti che le parti sociali hanno discusso nell’incontro del 4 agosto e che ha visto l’opposizione, per ora, di parte dei sindacati. Il fatto stupefacente è che tali dichiarazioni, che amplificano la strategia governativa per accontentare la speculazione finanziaria, vengano fatte pochi mesi dopo i referendum sull’acqua, che hanno sancito un indirizzo di voto del tutto opposto. Ovviamente, nessuno si è peritato a far osservare la contraddizione.

Nella lettera “segreta” recapitata da Trichet e Draghi a Berlusconi, all’interno del programma di governo che la Bce detta all’Italia e che Monti vorrebbe attuare con governo tecnocratico europeo sovranazionale,   si fa riferimento anche al mercato del lavoro, un settore storicamente rimasto fuori dalle competenze europee. Ma stavolta Trichet ci entra e lo fa nei dettagli: meno rigidità nelle norme sui licenziamenti dei contratti a tempo indeterminato, interventi sul pubblico impiego, superamento del modello attuale imperniato sull’estrema flessibilità dei giovani e precari e sulla totale protezione degli altri, una contrattazione aziendale che incentivi la produttività. Nulla di nuovo, si dirà. Sono anni, che grazie anche al supporto di parte dell’opposizione, si sostiene la favola del mercato duale: da un lato i super garantiti (cioè coloro con un contratto stabile di lavoro) e dall’altro, i meno garantiti (cioè i precari e le precarie). Nella realtà dei fatti – e il caso Fiat dovrebbe insegnarci qualcosa – tutto il mondo del lavoro si è precarizzato, senza alcuna distinzione, al punto che la condizione precaria è diventata strutturale e generalizzata, senza eccezione per alcuno (dai migranti, ai cognitari, agli operai, agli impiegati). Sulla base di tali premesse, si vorrebbe sostituire lo Statuto dei Lavoratori con lo Statuto dei Lavori. La Cgil non ci sta:  “al centro dell’ipotesi di ‘Statuto dei lavori’ del ministro Sacconi vi sono due concetti: derogabilità (al contratto collettivo, ndr.) e riduzione dei diritti (soprattutto per quanto riguarda il licenziamento per giusta causa, ndr.)”. Giusto. Ma allora perché si è firmato l’accordo del 28 giugno scorso, che introduce proprio la possibilità di deroghe al contratto nazionale? Una volta fatta una crepa nella diga, le probabilità che essa crolli, come già sappiamo, sono elevatissime.

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