Di male in peggio: la deriva salariale italiana

Secondo il rapporto “Taxing wages” dell’Ocse (maggio 2010), i salari italiani sono tra i più bassi dell’area Ocse, del 16,5% sotto la media. In particolare, segnala il rapporto, lo stipendio annuale netto a parità di potere d’acquisto del lavoratore medio in Italia nel 2009 è risultato pari a 22.027 dollari, contro i 26.385 dollari della media Ocse e i 28.454 dollari della Ue a 15.

Nella classifica generale l’Italia si colloca al ventitreesimo posto preceduta non solo da colossi come Stati Uniti (30.977 dollari), Francia (25.977 dollari) e Gran Bretagna (38.054 dollari), ma anche da Paesi come Spagna (25.339 dollari), Grecia (25.583 dollari) e Irlanda (31.897 dollari). Al primo posto brilla la Corea del Sud con 40.190 dollari. L’Italia occupa lo stesso gradino della graduatoria anche se si considera il caso di un lavoratore unico percettore di reddito in famiglia con coniuge e due figli a carico. In questo caso però il salario netto sale a 26.470 dollari. La situazione si inverte se si guarda il cuneo fiscale, vale a dire la differenza tra quanto porta a casa il lavoratore e quanto viene effettivamente sborsato dal datore di lavoro. In Italia si colloca al 46,5%, dieci punti sopra la media dei Paesi più industrializzati, posizionando il nostro paese al sesto posto della classifica, alle spalle di Belgio (55,2%), Ungheria (53,4%), Germania (50,9%), Francia (49,2%) e Austria (47,9%). Nel caso del lavoratore con moglie e due figli a carico il cuneo si riduce al 35,7%, contro una media Ocse del 26%, facendo scendere il nostro Paese al nono posto.

I dati che abbiamo presentato sono stati commentati in vario modo. I sindacati Cgil, Cisl e Uil hanno colto l’occasione per ribadire che è necessario abbassare le tasse sul reddito da lavoro, facendo così diminuire il cuneo fiscale e aumentare il salario netto. Si sono tuttavia dimenticati di dire che tale situazione è originata da due precise cause:

  1. Con l’accordo del 1992 e del 1993 (abolizione scala mobile), firmati dagli stessi sindacati, il salario netto non è più oggetto di contrattazione sindacale, in quanto predeterminato dal tasso di inflazione programmato, unilateralmente fissato dal governo nel Dpef di ogni anno. Poiché il tasso di inflazione programmato è costantemente inferiore a quello reale, si registra una perdita del potere d’acquisto reale, che non può essere totalmente recuperata nelle verifiche effettuate dopo due anni (se mai avvengono). Ciò spiega perché l’Italia in questa speciale classifica è scivolata nel corso degli ultimi decenni verso il basso.

  2. I dati italiani sul cuneo fiscale non sono del tutto comparabili con quelli degli altri paesi Ocse. L’Italia, infatti, è l’unico paese a non separare previdenza e assistenza. Ciò significa che i contributi sociali (che insieme alle tasse definiscono il salario indiretto, ovvero il cuneo fiscale) vengono utilizzati per pagare quelle (poche e distorsive) forme di sostegno al reddito (sussidio di disoccupazione, indennità di mobilità, casa integrazione, pensioni sociali e di invalidità, ecc.) che dovrebbero essere finanziate dalla fiscalità generale. E’ questa la ragione per i cui i contributi sociali sono tra i più elevati d’Europa, non per l’incidenza delle spese previdenziali, come molti commentatori si ostinano a sostenere, per affermare che se i salari sono bassi la colpa è delle pensioni. Se queste forme di sostegno al reddito venissero scorporate dai contributi sociali, allora l’incidenza del cuneo fiscale sarebbe più bassa e ne potrebbe conseguire una riduzione del costo del lavoro per le imprese e un aumento del salario netto per i lavoratoror*.

La proposta di welfare metropolitano avanzato nei mesi preparatori alla MayDay 2010 propone esattamente la separazione tra previdenza e assistenza e l’introduzione di forme di remunerazione minima. Due proposte che non risolvono il problema dei bassi salari e del cattivo welfare oggi esistente in Italia, ma che sono precondizioni per frenare il declino e invertire la rotta.

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