Il sindacato del santo

di Claudio Jampaglia
Diario – Settembre 2009

“Per trattare con un’impresa, a volte, basta trattarla male”.
È lo slogan di Bios, il sindacato lanciato dalle reti più politicizzate del precariato. si muovono come un’agenzia d’agitazione sociale e per l’autunno promettono scintille

In Francia ci hanno provato con i sequestri dei dirigenti, la dinamite ai macchinari e persino il black out elettrico di mezza Parigi, metro inclusa. L’ultima minaccia sensazionale dei licenziati di una piccola fabbrica di prodotti chimici suonava così: “Se non ci danno 15mila euro a testa avveleniamo la Senna”. Forte. Ma l’assuefazione comincia a farsi sentire. Si urla, ci si barrica per la “buona uscita” e poi tutti a casa, col sussidio di disoccupazione. Da noi, siamo solo all’inizio. Anche perché, malgrado le promesse del governo (“nessun lavoratore in difficoltà resterà senza aiuto”) non esistono ammortizzatori sociali di lunga durata e dopo la cassa integrazione in tutte le sue varianti – ordinaria, straordinaria, di solidarietà – arriva il calcio in culo. Finora il sindacato è sempre stato l’ammortizzatore del conflitto sociale per eccellenza. Ma riuscirà a esserlo ancora?

L’agosto di sudore e lotta prepara l’autunno della grande paura. Dopo i quattro della Innse appollaiati su un carroponte a 12 metri d’altezza per otto giorni (e dopo 15 mesi tra autogestione e presidio), sono arrivati i vigilantes sul Colosseo, gli operai sul Maschio Angioino e quelli in spiaggia a San Benedetto del Tronto a fischiare nelle orecchie dell’imprenditore che li ha licenziati. Solo in Lombardia abbiamo contato 11 fabbriche presidiate per tutto agosto, con picnic e grigliate, per evitare di ritrovarsi i cancelli chiusi e i capannoni svuotati. A Imola, invece, sono arrivati allo sciopero della fame.

Ma, a parte un gruppo di precari della scuola di Benevento, tetti e gru, finora, sono rimasti appannaggio dei lavoratori a tempo indeterminato. Eppure, per ogni lotta in corso ci sono altri lavoratori che sono già stati mandati a casa, in silenzio: precari, interinali, a progetto, somministrati… Dopo tanta letteratura e teatro (per non dire della sociologia) sulla generazione a mille euro, siamo sicuri che i venti-trentenni che non servono nemmeno come lavoratori di serie B se ne andranno a casa buoni buoni? Qualcuno pensa di no.

“Bios è un sindacato, agile e bastardo, di nuova generazione, geneticamente incazzato, nato per muoversi nelle terre ostili della precarietà e per re/agire adeguatamente ai ricatti delle imprese… Bios non vende illusioni e vittorie ‘scontate’, la sola cosa che può garantirti è quella di combattere fino all’ultimo, con ogni mezzo possibile. Per trattare con un’impresa, a volte, basta trattarla male”.

I ragazzi hanno idee da pubblicitari, curricula da centro sociale e sono quasi tutti “atipici” in prima persona. Dopo il lungo dibattito su postfordismo, fine del lavoro e general intellect, sono usciti dalle università e dalle aree dismesse coperte di graffiti per ritrovarsi carne e sangue delle teorie dei loro seminari autogestiti. Hanno iniziato dai call center e dalle cooperative sociali, si sono allargati agli intermittenti dello spettacolo, della moda e dell’editoria e ora puntano alla distribuzione (Auchan, Esselunga, Feltrinelli), alla giungla delle cooperative di servizi e trasporti… Luoghi dove il sindacato “normale” fatica ad arrivare, dove c’è dispersione e nessuna coscienza di classe. E dove capita sempre più spesso che compaia “il Santo”: San Precario, che raccoglie ormai decine di realtà del precariato politicizzato, tutte unite in un nuovo sindacato.

D’altronde è semplice, basta una mail e in meno di 24 ore arrivano moduli e istruzioni. Rapido e senza trafile. Il lavoratore si iscrive a Bios ma in realtà l’azienda ha davanti un’affiliazione della Rdb-Cub. L’accordo con il più grande sindacato di base italiano (mezzo milione di iscritti dichiarati) lascia al Santo completa autonomia su modalità, elezioni, iscrizioni e soldi. Un sindacato dentro un sindacato. Un sindacato ombra – o se preferite pirata – a cui la Cub presta l’avviamento per entrare nelle aziende (e non tutti dentro i cobas l’hanno presa bene).

L’intervista si fa in enoteca. Bottiglie di vino e calici. Al tavolo Piera, Nat, Andrea e Frankie. In Italia tra confederali, di base e autonomi esistono più di una ventina di sigle. Ci mancava pure il sindacato precario? «Una volta c’era il sindacato del lavoro che era il solo luogo della produzione, adesso la produzione è anche una fetta di vita e noi siamo il sindacato dei nuovi saperi, dei consumi, dell’unità tra welfare e lavoro». «Né sindacato politico come sono molti cobas, né sindacato burocratico come è diventata la Cgil». «Il sindacato è lo strumento per essere un po’ più efficaci. Per sedersi davanti alle aziende. Ma le autonomie, i modi, le lotte sono sempre gli stessi. Comandano i lavoratori del luogo, del posto in conflitto. Non ci sarà mai un segretario eletto, un comitato centrale che dispone, un leader “naturale”», ognuno dice la sua. Ma non bastava entrare in un sindacato di base? «I lavoratori che si rivolgono a noi sono per lo più prepolitici, andrebbero da un sindacato solo in caso di estrema necessità, e gialli o rossi non gliene può fregare di meno, vogliono risultati non rassicurazioni». «E la bassa sindacalizzazione per noi è un vantaggio perché hanno il tappo in testa». Tappo? «Non hanno la sconfitta nella testa, quella che i sindacati hanno inculcato in tutti questi anni, presentando solo accordi già chiusi da digerire ed espropriando i lavoratori del loro diritto a scegliere cosa fare». E su cosa si dovrebbe battere una generazione che tra le nostalgie di mamma e papà ha il posto fisso? «Per rispondere alla crisi ci vuole reddito garantito per tutti, servizi pubblici e gratuiti…Il lavoro da solo non garantisce più la sopravvivenza e nemmeno lo status sociale». «Tra welfare e lavoro oggi non esiste differenza. Il centrodestra è più attrezzato a capirlo e questo governo andrà per le spicce scaricando sui singoli il costo della crisi e smantellando il poco che ancora esiste. E i sindacati della litania “un accordo è sempre meglio di niente” non controlleranno più i lavoratori». Detto con il gruppo hip hop più politicizzato d’Italia, gli Assalti Frontali: “Dovete darci il denaro, poi ne riparliamo, poi…” Ma alla prova dei fatti come si fa?

“I volti sferzati dalla pioggia fanno davvero brutto. Ma ora che non c’è una partita da guardare o la bamba da comprare, sono dei nostri… Ragazzi di periferia con pitbull al seguito, slang di Quarto, Baggio, Corvetto. Cannoni che partono alle otto insieme a decine di sigarette. Trenta e quarantenni all’ultimo treno sfuggito di corsa, quando pensavano di averlo raggiunto quel cazzo di posto di lavoro. Sognato e sottratto loro giovedì scorso. Insieme ai furgoni con cui facevano le consegne”. Il racconto è preso dal sito precaria.org, una specie di portale della “cospirazione precaria”, la vicenda è di aprile: “Una coop dalla sede inesistente, un subappalto girato da Tnt a Poste Italiane. E un incubo che si chiama licenziamento. Gli occhi dei più giovani si incattiviscono mentre rispondono a un commissario della Digos che grida forte in faccia a uno di loro di raccogliere la merda che ha fatto il suo cane. Uno sfregio casuale e ridicolo se non fosse stato fatto proprio sulla porta della Tnt, l’azienda che li ha subappaltati per guadagnare sulla loro pelle. Non sono volati gli schiaffoni per un nulla. Erano lì sotto la pioggia in via Valtellina dalle sette e mezza del mattino, i subappaltati e licenziati. Davanti agli occhi dei funzionari di polizia. Si vedeva da come prendevano il caffè che i poliziotti avevano appena iniziato il servizio, che non volevano problemi. Il posto dove sprayare lo striscione ce l’hanno indicato loro, unico spazio coperto dentro all’azienda. La determinazione dei ragazzi licenziati aumenta con il passare dei minuti. I cori da stadio provano a far scendere qualche responsabile che ‘vi assicuro’, ‘ci ho messo la faccia’, ‘non ci saranno problemi’. La delegazione che ha parlato coi dirigenti è tornata… Grazie alla ‘miracolosa’ legge Bersani, oggi anche le Poste Italiane possono licenziarti, subbappaltarti a dei truffatori. Mettere in pericolo il tuo reddito e la vita delle tua famiglia. Grande conquista davvero…”

Per la settantina di furgonisti arriverà un’offerta di 200mila euro da dividere tra tutti. Poca roba. E il blocco delle uscite del magazzino si farà ancora. Col Santo e dopo un ricorso d’urgenza al tribunale del lavoro. Quei ragazzi, alcuni lontani anni luce da qualsiasi centro sociale, poche settimane dopo balleranno dietro un carro della May Day, il primo maggio autorganizzato dal Santo con Rdb-Cub, che a Milano ha eclissato a suon di musica e carri allegorici il primo maggio sindacale. Perché l’ideologia conta poco, la storia ancor meno. Conta esserci.

Il gruppetto in enoteca è vario: due “agitatori” quasi di professione, precari, casa occupata, buone letture e film, passati da tutte le realtà della politica antagonista dagli anni ’80 a oggi, una lavoratrice di call center protagonista di una delle lotte più dure di questi anni e delegata sindacale, e un professore di economia dell’Università di Pavia, teorico del reddito di cittadinanza. Manca solo l’avvocato per completare il quadretto dei fondatori di Bios. Dietro di loro una trentina di siti internet di “categoria”, dagli “operai sociali” (che in realtà sono i lavoratori delle cooperative sociali), ai “diversamente strutturati” (assistenti e dottorandi negli atenei), per circa 500 attivisti o sarebbe meglio dire “diffusori”. E un giornale pirata, City of Gods, che saltuariamente compare nei distributori free-press. Agiscono come una rete e hanno ormai una specializzazione nella lotta creativa. Dalla sfilata in cartellone a “Milano vende moda 2005” di una finta stilista giapponese, Serpica Naro (anagramma del Santo), che portava in passerella il fashion precario con tanto di finta contestazione, alle incursioni al Teatro della Scala o sul tappeto rosso del Festival del cinema di Venezia e ancora all’ambasciata svedese nel maggio scorso per chiedere un asilowelfare degno dell’Europa.

Dal 2001 il contenitore annuale di tutto ciò che si è agitato nell’universo precario è stata la May Day milanese (con appendici in altre città, anche europee). Ora si parte alla conquista dei saperi del vecchio sindacalismo: deleghe, organizzazione, tavoli. Per ora Bios offre “una serie di servizi erogati da una rete di soggetti” quali recupero crediti da lavoro, controllo busta paga, assistenza legale, fiscale e previdenziale, sportello salute, consulenza affitti e sfratti… Gli sportelli sono per lo più a Milano e provincia (una decina), qualcosa si sta aprendo a Torino, Bologna, Firenze e Roma. Ma il tutto ancora non fa un sindacato. Piuttosto un’associazione, un’agenzia di servizi. Non è quello verso cui vanno anche i confederali? «Forse, ma il nostro presupposto è opposto. Ci sono dei lavoratori, c’è un conflitto, c’è la certezza che comunque finisca si avrà meno di quanto si è dato e c’è la disponibilità a mettersi in gioco in prima persona. Lì entriamo in gioco noi».

Molte storie di San Precario iniziano così: si comincia con la denuncia del fattaccio (Tfr non pagato, trasferimenti punitivi, cooperative che scompaiono dall’oggi al domani…), scatta il patrocinio legale e poi l’analisi del caso e il piano d’azione. Come un’agenzia marketing o pubblicitaria, ma d’agitazione sociale. Come un sindacato di vertenze disperate, spesso già abbandonate dagli altri. È il caso delle “Sea girls” una ventina di hostess di terra e addette al check-in di stanza a Malpensa. Dopo cinque anni di contratti a tempo, all’undicesimo rinnovo, si trovano lo scherzetto: stessa mansione, stesso posto ma il datore di lavoro è un’agenzia interinale. Le ragazze bussano diverse porte sindacali, fino allo sportello del Santo che nel marzo 2006 si rivolge al tribunale di Busto Arsizio. La risposta è perentoria: illegittimi i contratti a termine, reintegrare e risarcire le lavoratrici. Vittoria. E invece Sea – l’azienda degli aeroporti milanesi – le trasferisce a Linate. E le ragazze ritornano in tribunale: discriminazione e mobbing. Col Santo cominciano a fare ciò che in aeroporto diventerà di moda col fallimento Alitalia: volantinaggio ai desk, occupazione delle sale vip e così via. A ottobre 2007 sono reintegrate a Malpensa. La voce si sparge e ora il Santo fa proseliti alla Sagat di Torino, alla Sab di Bologna e tra i pulitori e addetti al catering dell’onnipresente Aviapartner.

Nei call center, nemmeno a dirlo, vanno forte. Tra esternalizzazioni, trasferimenti da Milano a Roma, pagamenti a cottimo, “contratti fantasia e metafisica della mansione” (outbound, inbound…) il Santo comincia a radicarsi oltre i giganti Wind, Vodafone, Telecom, nella frontiera del outsourcing: Cos, Omnia, E-Care, Comdata, Media Trade, Transcom. Proprio contro Omnia “patrocina” una cinquantina di lavoratrici che dal 2007 contestano la loro esternalizzazione da Wind. In 24 mesi 112 “azioni di lotta”, dal boicottaggio dei numeri verdi serviti dal call center, al picchetto al negozio “MondoWind”, fino al presentarsi alle 7.30 al bar preferito dall’amministratore delegato per fare colazione con lui, in trenta. Sono loro le protagoniste del faccia a faccia serrato col solito direttore che viene portato in un’assemblea improvvisata a promettere i pagamenti in ritardo. I giornali parlarono di “sequestro alla francese”. Solo un civile scambio di opinioni. Il Santo, intanto, ha vinto il match del riconoscimento di premi e altri diritti retributivi persi nel passaggio d’azienda (e il tribunale di Monza ha accettato di pignorare le fatture in pagamento dai clienti Omnia come garanzie per le spettanze), ma ha perso il primo round del processo sulla legittimità dell’esternalizzazione vera e propria. Poteva Wind prendere 275 lavoratrici assunte a tempo indeterminato, dichiararle esuberi e venderle col ramo d’azienda a organizzazione e condizioni di lavoro peggiori? Le ragazze continuano a dire di averci rimesso troppo. Il tribunale riconosce loro delle ragioni ma non se la sente di mettere in discussione l’esternalizzazione in sé. Sarebbe un precedente deflagrante. Intanto le ex-Wind girls continuano a essere pagate a singhiozzo, senza mensa, con turni ballerini e un’azienda di 2.500 dipendenti sparsi in decine di strutture che non se la sta passando proprio bene. «La prossima volta gli facciamo pignorare le quote sociali», ci dice l’avvocato. Una buona idea. Che spaventerebbe soprattutto le aziende quotate in borsa o che vivono di società dello spettacolo: moda, editoria, comunicazione. «In questi settori abbiamo molto da lavorare, anche perché sono per lo più professioni dove conta più la remunerazione simbolica dello status del salario – spiega il professore – sono settori chiusi, dove bisogna “entrare nel giro” ed è considerato più importante avere in tasca il numero di telefono del famoso tal dei tali piuttosto che il contratto scaduto da mesi o le dieci ore di lavoro pagate sei». Precari che lavorano settimane filate, notti, domeniche, per ritrovarsi in busta paga i mille euro di un travet a cartellino. Il salario come accessorio della prestazione, come conferma un sondaggio promosso dalla “Rete redattori precari” (sempre San Precario) sui collaboratori delle case editrici. Gente che lavora da anni come redattore e quando guadagna più 1.500 euro al mese, di solito, è già sotto partita Iva. Sarà un caso ma è proprio in questi settori che si sviluppa più rapidamente il mobbing: se la vita è al lavoro, quando il lavoro fa schifo la vita segue. Alla faccia della remunerazione simbolica.

Gli operai illuminati dal Santo, invece, sono pochi. Stanno con la chiesa maggioritaria. Anche se alla Lares e alla Metalli Preziosi, aziende metalmeccaniche di Paderno Dugnano in procedura di fallimento con 260 lavoratori in presidio permanente, questa estate si è cominciato a discutere di un progetto di auto-imprenditoria con l’aiuto del Santo che porterebbe progettazione, contatti con università e innovazione. Una soluzione di autogestione alla “argentina”, un progetto cooperativo per non finire nelle mani dell’ennesimo salvatore di un giorno (magari presentato dal sottosegretario di turno come fu per la Innse) che incassa gli aiuti pubblici e poi si squaglia.

Per settembre il calendario del Santo prevede una scuola per 160 badanti nell’alto Veneto, i risultati dell’inchiesta nazionale sul “welfare invisibile” (2.700 operatori sociali intervistati, quasi il triplo del campione dei sondaggi di intenzione di voto per le elezioni politiche), un corso sullo stress da lavoro e gli “stati generali del precariato”. La frase più gettonata del momento sui siti del network è già un programma: “Maturità per l’adulto è ritrovare la serietà che da bambini si metteva nel gioco” (Nietzsche). E il gioco si farà duro.

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1 comment to Il sindacato del santo

  • non e’ possibile rimare prosa sulla quotidiana ricerca di riposo e sforzo sovietico per lavorare e possibilmente creare spazii terrestri d’allevamento solidale; il sindacato deve smettere di fare politica e la politica non ha da fare null’altro che esistere perche’ e’ tutto cio’ che abbiamo, perche’ se non lo sapete lo saprete “il troppo stroppia” e non ha colore solo forza e non di volonta’ ma forza distruttiva! PEACE and REPORT

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