Industriale vive da operaio

La precarietà sta veramente cambiando il nostro modo d’intendere il presente?

Più di due secoli or sono nel Regno Unito con l’introduzione della fabbrica si apri una crisi sociale e culturale senza precedenti. Da una parte il grande latifondo agricolo che si opponeva all’affermazione di un nuovo ceto politico rappresentante la borghesia cittadina. Dalla stessa parte la Chiesa Anglicana critica verso la dissoluzione di un modello di vita, idealizzato, del contadino tutto campi e chiesa. Infine, sempre dal medesimo lato il Luddismo, un movimento di operai che si opponeva alla fabbrica distruggendo le macchine che la componevano. Si può dire che gli interessi convergenti di queste forze costituisse un movimento "contro il proletariato".

Dall’altra parte, come forza opposta, c’era la rivoluzione industriale, i vantaggi della produzione di massa, lo sviluppo delle forze produttive ecc. ecc.
Si sa come proseguì la storia. Ben presto la lotta contro il capitalismo sancì la necessità di una presa di coscienza e l’organizzazione del proletariato. Le Unions, prima illlegali, considerate alla stregua di entità mafiose, si affermarono.
Gli operai, prodotto neutro del capitalismo, nè di destra nè di sinistra, ma antagonisti al padrone per definizione, incontrarono sulla propria strada il socialismo, derivato scientifico dell’intelletto.

L’unione di questi fattori produsse la Storia che conosciamo.
Ma ci fu un periodo in cui i padroni stessi si spaventarono di fronte alle proprie Macchianazione e tentarono di lavarsi la coscienza umanizzando la vita degli operai. Costruirono villaggi, chiese, parrocchie a cui spettava l’istruzione dei proletari, riproducendo quegli equilibri ideali e morali che le trasformazioni del modo di produzione avevano rotto strappando dal mondo bucolico milioni di persone e trapiantandole nelle città. Nacque l’illusione di una visione umana e paternalistica del capitalismo. E durò poco.

Ancora nella seconda metà dell’ottocento il prodotto interno lordo della nazione più industrializzata del mondo era nella maggior parte dovuto al lavoro agricolo e le persone, in gran parte, occupate come contadini e braccianti. Però nessuno si sognò di affermare che quella minoranza di operai non costituisse il luogo strategico del ragionamento e dell’investimento politico.
Pietismo del capitale e profezia della politica. Meditate gente.


 

Repubblica.it (21 ottobre 2007)

Enzo Rossi ha passato un mese come i suoi dipendenti
e dopo quest’esperienza ha deciso di dare aumenti a tutti

Industriale vive da operaio
"Il 20 avevo già finito i soldi"

"L’ho fatto anche per le mie figlie, che non hanno mai provato privazioni"
dal nostro inviato JENNER MELETTI


CAMPOFILONE (Ascoli Piceno)
– Per un mese ha provato a vivere con lo stipendio di un operaio. Dopo
20 giorni ha finito i soldi. Enzo Rossi, 42 anni, produttore della
pasta all’uovo Campofilone, ha deciso allora di aumentare di 200 euro
al mese, netti, gli stipendi dei suoi dipendenti, che sono in gran
parte donne. Ha dichiarato di essersi vergognato, perché non è riuscito
a fare nemmeno per un mese intero la vita che le sue operaie sono
costrette a fare da sempre. Ha detto che "è giusto togliere ai ricchi
per dare ai poveri".

Signor Rossi, per caso non sarà comunista?

"No. Non sono marxista. Sono un ex di destra. Ex perché quelli che
votavo non sanno fare nemmeno l’opposizione".

Perché allora questo mese da "povero" e soprattutto la decisione di aumentare i salari a chi lavora per lei?

"Perché stiamo tornando all’800, quando nella mia terra c’erano i conti
e i baroni da una parte ed i mezzadri dall’altra, e si diceva che i
maiali nascevano senza coscia perché i prosciutti dovevano essere
portati ai padroni. Negli ultimi decenni il livello di vita dei
lavoratori era cresciuto e la differenza con gli altri ceti era
diminuita. Adesso si sta tornando indietro, e allora bisogna
rimediare".

Aveva bisogno davvero di provare a vivere con pochi soldi? Non poteva chiedere a chi è costretto a farlo, senza scelta?

"Certo, sapevo come vivono le donne che lavorano per me. Ma ho fatto
questa esperienza soprattutto per le mie figlie, che non hanno mai
provato le privazioni. Ho voluto fare toccare loro con mano come vivono
la grandissima parte delle loro amiche".



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Come si è svolto l’esperimento?

"E’ stato semplice. Io mi sono assegnato 1.000 euro, e altri 1.000 sono
arrivati da mia moglie, che lavora in azienda con me. Duemila euro per
un mese, tante famiglie vivono con molto meno. Abbiamo fatto i conti di
quanto doveva essere messo da parte per la rata del mutuo,
l’assicurazione auto, le bollette… Con il resto, abbiamo affrontato
le spese quotidiane. Il risultato è ormai noto: dopo 20 giorni non
avevamo un soldo. Mi sono vergognato, anche se ero stato attento a ogni
spesa. Sa cosa vuol dire questo? Che in un anno intero io sarei rimasto
senza soldi per 120 giorni, e questa non è solo povertà, è
disperazione".

Signor Rossi, lei è mai stato povero?

"Sì, anche se ero già un piccolo imprenditore. Nel 1993 – erano già
nate le mie figlie – ho dovuto chiedere soldi in prestito agli amici
per mantenere la famiglia. Non mi vergogno a dirlo, tanto quei soldi li
ho restituiti. E’ anche per questo che nell’esperimento ho coinvolto la
famiglia. Volevo che le mie figlie vivessero in una famiglia con pochi
mezzi, per trovare difficoltà e provare a superarle".


Il momento peggiore?


"L’ultimo giorno, quando ho deciso di arrendermi. Entro nel bar con 20
euro in tasca, gli ultimi. Sono conosciuto in paese, siamo 1.700
abitanti in tutto e gli imprenditori non sono tanti. Mentre entro un
pensiero mi fulmina: e se trovo sei o sette amici cui offrire
l’aperitivo? Non ho abbastanza soldi. Ecco, ci sono tanti operai che,
quando tocca il loro turno, debbono pagare da bere agli altri, perché
non è bello fare sapere a tutti che si è poveri. Sono in bolletta e non
lo dicono a nessuno. In quel momento ho pensato: tanti di quelli che
sono qui sono poveri davvero e non per un mese. Mi sono sentito come
quando sei immerso in mare a 20 metri di profondità e scopri che la
bombola è finita".

E allora ha deciso di aumentare i salari.

"E’ il minimo che potevo fare. Secondo l’Istat, il costo della vita è
aumentato di 150 euro al mese. Per quelli come me non sono nulla. Per
gli operai 150 euro al mese in meno sono quasi 2.000 all’anno, e questo
vuol dire non pagare le rate della macchina o non comprare il computer
al figlio. E poi, lo confesso, io ho aumentato i salari anche perché
sono un egoista. Secondo lei, come lavora una madre di famiglia che sa
di non poter arrivare a fine mese? Se è in paranoia, dove terrà la
testa, durante il lavoro? Le mani calde delle mie donne che preparano
la pasta sono la fortuna della mia azienda. E’ giusto che siano
ricompensate".

Se aumenta gli stipendi, vuol dire che l’azienda rende bene.

"Nel 1997, quando ho preso il pastificio Campofilone, il fatturato era
di 90 milioni di lire. Quest’anno arriveremo a 1,6 milioni di euro. Da
due anni le cose vanno davvero bene, e mi posso definire benestante.
Non è giusto che sia solo io a goderne. Il valore aggiunto derivato
dalla trasformazione della farina e delle uova deve portare benefici
sia ai contadini che mi danno la materia prima che ai lavoratori della
fabbrica".

Come l’hanno presa, i suoi colleghi industriali?

"Mi sembra bene. Alcuni mi hanno telefonato per sapere se l’aumento di
200 euro è uguale per tutti e altre cose tecniche. Forse vogliono
imitarmi e questa è una cosa buona. Io ho spiegato che sarebbe giusto
non fare pagare alle aziende i contributi relativi a questo aumento. Se
il governo capisce (mi ha telefonato anche Daniele Capezzone, della
commissione imprese) l’idea di prendere ai ricchi per dare ai poveri
non resterà soltanto un manifesto".

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