Judith Butler, qualcosa è cambiato?

Va riconosciuto merito a chi, giovedì 27 marzo, ha reso possibile, all’Università La Sapienza di Roma, l’incontro con Judith Butler e Wendy Brown, docenti di Berkeley, in California. Era la prima volta  che Butler, famosa filosofa femminista americana  – nota da noi soprattutto per il suo fortunato libro del 2004 “Vite precarie” e considerata una delle principali fondatrici della “teoria queer”  – veniva in Italia. Evento di rilievo particolare, dunque, in questo primo semestre dell’anno bisestile 2008. Momento che si prestava perciò, perfettamente, a qualche polemica, a eccitazioni forse eccessive, anche alle letture frettolose.

Judith Butler è la rivoluzionaria autrice di “Gender Trouble” (la prima edizione, negli Usa, risale al 1990. In Italia è arrivato solo nel 2004), testo nel quale metteva in discussione drasticamente, in modo definitivo, scintillante, potente, la norma prescrittiva del genere, e con ciò il concetto stesso della “norma” sans phrase su cui si incardinano le forme del potere delle società tardo moderne – con forti riconoscimenti al pensiero di Foucault. Oggi è una pensatrice che va costruendo le proprie riflessioni intorno al concetto di vulnerabilità dell’umano: l’identità non esiste più perché essa è superata dalla unificante “condizione di esistenza”, umana, vulnerabile (anche in “Critica della violenza etica”). In una qualche misura incrociando l’“orrorismo” di Adriana Cavarero, con cui è in contatto e “nella cui luce”, afferma, “ho affrontato la lettura di Arendt”.

 

In questi ultimi anni, sono state grandemente amate, citate, restituite le sue parole radicalissime sugli “sforzi filosofici del femminismo che, in un certo senso formano un tutt’uno con l’obiettivo della trasformazione sociale” (ce ne sono ancora ne “La disfatta del genere”, 2006). Ma ascoltarla a Roma è stato utile per comprenderla meglio di quanto potessero, tutto sommato, consentire le sue pagine, in alcuni casi lette seguendo una sequenza temporale rovesciata.

 

Filosofa di formazione esplicitamente hegeliana e legata alle letture lacaniane, nella sua lezione alla Sapienza tenuta sulla base di una relazione di 26 pagine, è partita dal concetto del lutto e della perdita di Melanie Klein per arrivare a postulare la centralità della relazione e dell’interdipendenza tra soggetti come unica possibilità di riscatto dalla distruttività del primo mondo, basata sul nazionalismo, sulla guerra, sulla divisione tra vite ritenute degne di essere vissute e vite che non godono di tale riconoscimento.

 

Il processo che l’ha portata, a partire dall’11 settembre 2001, sempre più agli attuali studi sulla perdita, lo spossessamento, la morte, il lutto, sulla precarietà dell’esistenza, sulla violenza, sul disumano è emozionante e umanissimo – oltre che conseguente. Ma, a nostro avviso, paradossalmente, pur volendo mettere al entro la “questione della vita” finisce per mancare di vita. Manca di gioia, di visionarietà, di forza, manca di spazi di eccedenza e di tracce di reazione positiva. Soprattutto, il dubbio è che si presti a essere radice di una politica, di un pensiero politico, debole, fragile, indifeso. Propone una dimensione politica nel modo di pensare il corpo e la sovranità in rapporto agli altri (“il mio corpo non è solo mio e non è solo per il mio corpo che parlo quando reclamo certi diritti”). Ma è proprio questa dimensione di interdipendenza relazionale estrema verso la quale Butler, sempre più, prendendoci per mano, prova a condurci, unica dimensione nella quale l’io, il soggetto si da, può darsi (“Ciò che io sono non è nulla senza la tua vita. La mia vita è niente senza la vita che mi eccede”; “Il mio corpo non mi appartiene, esso dipende da certe dislocazioni di prospettiva”), a porre una serie di problemi politici. Che fine fanno l’autodeterminazione, l’autonomia, la scelta, il protagonismo dei soggetti, e delle donne in particolare? Questa propensione etica, morale, che si basa – con bellissima immagine – sulla dislocazione del “mio respiro nel respiro dell’altro, con l’altro, dall’uno all’altro” – il respiro della poesia – è davvero in grado di rappresentare una risposta adatta alle drammatiche, violente, prescrittività della biopolitica contemporanea fondata sulla guerra? Le pratiche conflittuali sono ritenute legittime, in questa prospettiva? Come si pone, rispetto ad esse, questa ontologia dell’umana, affettiva, interdipendenza? E i movimenti sociali di tutto il mondo che rivendicano il diritto alla resistenza, con tutto ciò che ciò significa nella pratica, come vanno veramente pensati e collocati in questa visione?

 

Da parte nostra, del tutto provocatoriamente – siamo consapevoli dello spostamento che operiamo nello scriverlo – pensiamo sia vero che il soggetto precario si dia solo nella rete delle relazioni: il soggetto precario è un soggetto che quasi non esiste al di fuori di esse. Ma riteniamo che questo rappresenti anche una nuova forma assunta consapevolmente dal neoliberalismo (il suo nuovo modello, efficacemente rappresentato da Web 2.0 che mette al lavoro la costituzione sociale dell’individuo singolo, per fare un esempio banale quanto estremo).

 

La bella relazione di Wendy Brown “Sovranità porosa, democrazia murata” è stata ricchissima di documentazione sui “nuovi muri” che in tutto il pianeta si stanno erigendo, a valle della Guerra fredda e della apartheid sudafricana. Se lo sbarramento tra Israele e la Palestina e il confine chiuso tra il Sud della California e il Messico rappresentano un caso tristemente molto noto e luttuoso, sono sorti, sorgono muri meno famosi ovunque: tra India e Pakistan, tra Arabia Saudita e Yemen, tra Botswana e Zimbabwe, tra Uzbekistan e Kyrgyzstan. Muri per proteggersi dai poveri, dai terroristi, dagli “altri”, dai barbari. Muri a difesa delle classi medie come quello di Padova, in Italia, costruito per evitare situazioni “alla francese”. Muri che crescono nella retorica di un mondo senza confini. Muri verso cui aumenta la passione collettiva proprio quando vengono posti in discussione gli attributi dello stato nazione, messa in scena teatrale della sovranità di uno stato che vacilla sotto l’effetto dei criteri del mercato contemporaneo, liquido, finanziario, privo di barriere. Muri che sono la nuova forma teologica di una sovranità che ha nel capitale e nella violenza legittimata dalla religione i suoi baluardi e che con ciò mostra tutta la debolezza e il fallimento della sovranità statuale contemporanea.

 

Simboli di ciò che angoscia ma che non può essere contenuto, in realtà tutti questi nuovi muri servono a creare una nazionalità xenofoba e a cancellare la soggettività dei migranti, ridotti a massa deprivata dalla globalizzazione neoliberista che “ha necessità di una manodopera non organizzata di sudditi, privi di parola, da usare e gettare”. E a segregare chi, dentro il confine murato, dall’altra parte, rimane recluso, e disciplinato a sua volta. Prigioniero, a sua volta, di uno sviato ideale di sicurezza, di protezione, che lui stesso ingenuamente invoca e del quale finisce per essere schiavo.

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