La fine del Contratto Collettivo Nazionale.

L’accordo che la Cgil ha firmato con le controparti (Cisl, Uil e Confindustria) segna una svolta strutturale, quasi epocale, nella storia delle relazioni industriali di questo paese. Sono diverse gli elementi di rottura che si possono riscontrare.
Si sancisce di fatto il primato della contrattazione aziendale su quella collettiva, formalizzando e legittimando quella che era stata la strada  unilateralmente percorsa dalla Fiat con gli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori.  Si compie così il lungo percorso iniziato con gli accordi del 1993: si inizia a depotenziare il contratto collettivo di lavoro, poi lo si snatura, quindi, lo si rende del tutto ininfluente.
Con l’accordo del 1993, la variabile “salario” non è più oggetto di contrattazione tra le parti sociali. Essa viene infatti predeterminata sulla base del tasso d’inflazione programmata, definito dal governo in carica nel DPEF.  Con l’accordo separato del gennaio 2009, e prima ancora con alcune intese concertative (ad esempio con il Patto per l’Italia del 2002), l’applicazione del contratto collettivo  è sottoposta ad alcuni vincoli che ne erodono l’efficacia. Oggi tale processo giunge a compimento: con la possibilità di  attuare deroghe a favore della contrattazione aziendale, il contratto collettivo non definisce più quelle regole universalistiche come “conditio sine qua non” per poter poi stipulare con miglioramenti ulteriori altre modalità contrattuali. Siamo entrati nell’era della flessibilità contrattuale.
Proprio per consentire tale flessibilità, l’accordo in oggetto fissa invece in modo molto rigido i criteri della sua applicazione, anche a scapito di qualsiasi principio democratico. In primo luogo, è sufficiente che i firmatari dell’eventuale accordo aziendale (anche se peggiorativo rispetto al CCNL) rappresentino il 50+1 dei lavoratori interessati. In secondo luogo, tale stipula non è sottoposto a referendum tra i lavoratori e infine, a differenza di quanto in vigore sino ad oggi, è vincolante anche per le organizzazioni sindacali non firmatarie. Paradossalmente, si deroga a principi di contrattazione universale e di rappresentanza sindacale in nome di norme rigide di stipulazione contrattuale, per garantirne l’elevata flessibilità e varietà.
In tale contesto, lo stesso ruolo del sindacato come parte sociale viene di fatto annullato. Dopo questo accordo, infatti, la funzione sindacale si ridurrà molto semplicemente ad una attività di governance delle strategie di dismissione e ristrutturazione delle imprese in condizioni di dipendenza e subalternità. La principale ragione che più di un secolo fa ha portato alla nascita delle organizzazioni sindacali – la difesa degli interessi dei lavoratori – non è più esigibile.
Ci si potrebbe domandare perché allora le organizzazioni sindacali firmino gli accordi. La ragione è molto semplice. E’ dalla fine del paradigma fordista che il sindacato concertativo ha smesso di fare il sindacato, cioè  da quando in buona o in mala fede, ha preferito trasformarsi da organizzazione sociale a organizzazione politica, non più portatore di interessi ma mediatore di interessi altrui. Tale trasformazione è stata agevolata dalle modificazioni strutturali che hanno interessato la composizione del lavoro vivo negli ultimi trenta anni, modificazioni alle quali la struttura sindacale non è stata capace di adeguarsi.
Siamo ritornati all’Anno Zero, al tempo in cui il sindacato non esisteva e lo sciopero era illegale. Occorre ripartire da qui, dai nuovi soggetti del lavoro in particolare da coloro che vivono l’attuale condizione precaria, individuando nuove formule organizzative, nuovi mezzi di comunic/azione e un nuovo protagonismo sociale. Coscienti che non abbiamo nulla da perdere, se non le nostre catene materiali e culturali.

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