Ma l’Italia non è un paese per giovani

Esce “La generazione tradita” di Pier Luigi Celli. Riprende le riflessioni della lettera di un anno fa a “Repubblica”, intitolata “Figlio mio lascia questo paese”.
Tre su dieci sono senza lavoro. E per gli altri vige la religione del precariato.

Partiti e sindacati non li rappresentano. Le imprese predicano bene ma razzolano malissimo.

«Forever young», cantavano Bob Dylan nel ’74 e gli Alphaville nell’84, in quello che suonava come un inno romantico alle sfide in campo aperto, alla voglia di cambiare il mondo, alla capacità di sognare e di costruire il futuro. «Non è un paese per giovani», cantiamo noi oggi, in questa Italia costretta a rideclinare così il titolo del magnifico romanzo di Cormac McCarthy. E abituata a ingabbiare i giovani dentro uno schema collaudato ma corrivo. Da una parte i «bamboccioni», inchiodati a casa con mamma e papà per non assumersi una responsabilità. Dall’altra parte gli «invisibili», condannati a marcire nel precariato a vita per non morire di fame. Nella terra di mezzo, tutti gli altri. Pochi «fortunati», figli di potenti che scalano per diritto acquisito la piramide sociale. Tanti «sfigati», figli di nessuno che non hanno altra via che scappare all’estero, a cercare altrove la fortuna che gli è negata qui.

Lo schema è rozzo, e difficile da rompere. Se non al prezzo di destare un pò di scandalo. Pier Luigi Celli ci ha provato giusto un anno fa. Era la fine di novembre, e su questo giornale pubblicava una «lettera aperta a suo figlio» nella quale, dopo aver descritto lo sfascio etico e politico, morale e sociale di questo sciagurato Paese, lo invitava con la morte nel cuore a fare i bagagli, e ad andarsene dall’Italia. Perché «dammi retta – scriveva l’ex direttore generale della Rai, ora direttore generale della Luiss – questo è un Paese che non ti merita». Non l’avesse mai scritto. Si scatenò un putiferio. Anche qui, secondo uno schema ancora una volta collaudato ma corrivo. Da una parte i «critici del partito preso» (fondamentalmente, il Pdl): «vergognati a suggerire la fuga», l’Italia è il migliore dei mondi possibili, è la terra delle grandi opportunità. Dall’altra parte gli «a-critici della causa persa»: ma di che parla Celli, proprio lui che è stato sempre nella stanza dei bottoni e che in fondo appartiene pur sempre a una «casta»? Nella terra di mezzo, quasi nessuno che si sia sforzato di cogliere il nodo vero della questione, sia pure travestita da provocazione: che ne sarà dei nostri giovani, che finiti gli studi si affacciano ai bordi della vita adulta senza soldi, senza risorse e senza speranze, ma non sono affatto gli uomini più felici del mondo, come scriveva l’Henry Miller di Tropico del cancro?

Forse ancora scottato da quell¿azzardo, Celli torna sul luogo del delitto con un bel libro, che nel titolo dice già molto, se non tutto. La generazione tradita (Mondadori, pagg. 144, euro 17) è prima di tutto la storia di un fallimento, generale e (pro-quota) anche personale. Il fallimento di un establishment politico e cattedratico, economico e tecnocratico (al quale anche Celli dichiara onestamente di appartenere, senza cercare alibi o scuse) che non è riuscito a costruire un sistema nel quale, secondo il titolo felice di un altro buon libro scritto qualche anno fa da Nicola Rossi, si dà «meno ai padri, più ai figli». E che ha invece assemblato, e alla fine consolidato, una struttura sociale che vede i padri contro i figli, «gli adulti contro i giovani». Non è una novità. La denunciano tutti, e non da oggi, le istituzioni più prestigiose, le classi dirigenti più autorevoli. Dalla Banca d’Italia alla Confindustria, dall’Istat al Censis.

Ma leggere i numeri che Celli rimette in fila fa sempre impressione. Oggi circa un terzo della popolazione giovanile compresa tra i 15 e i 29 anni è senza lavoro, con un aumento del 4,9% sul 2009. Nel 2009 le assunzioni a tempo indeterminato sono calate del 30%, mentre le poche assunzioni fatte sono quasi tutte regolate da contratti temporanei: stage, tirocini, inserimenti a progetto, finte partite Iva. È il disperato «culto» moderno di San Precario: esige che un lavoro qualsiasi, malpagato e senza uno straccio di garanzia, sia comunque meglio di nessun lavoro. La beffa, oltre al danno, è che neanche questa nuova «religione» del mercato giuslavoristica salva l’anima dei suoi «cultori» involontari: il 90% dei posti bruciati da questa crisi è infatti lavoro a tempo determinato. Risultato: il 60% dei 2 milioni e mezzo di disoccupati italiani ha oggi meno di 34 anni.

Eccola, la «generazione tradita». Gli abbiamo «intossicato il futuro», come dice Zygmunt Bauman. E quello che è peggio, denuncia Celli, dopo avergli rubato la speranza gli abbiamo anche tolto la voce. Questo «popolo», oggi, è forse l’unico a non avere una rappresentanza. Né sociale, né tanto meno politica. Il sindacato pensa ai già garantiti e ai pensionati, lo zoccolo duro della sua costituency. Le imprese predicano bene ma razzolano malissimo, perché hanno perso «l’anima» e al dunque preferiscono dissestare i loro criteri di approvvigionamento delle risorse, rendendo opachi i modelli di impiego e di remunerazione adottati, e riducendo l’analisi delle condotte umane secondo «i meccanismi di adesione formale» a un modello di business o «di devianza».

Resta il Palazzo. Cioè la politica. Della «generazione tradita» si occupa o con le consuete, agghiaccianti generalizzazioni, disquisendo a sproposito di ragazzi neo-diplomati e neo-lauerati di cui non conosce nulla, perso com’è nell’«usura del linguaggio» imposta dalla modernità. Oppure non si occupa affatto, preferendo il silenzio assordante tipico delle nomenklature che «non si sporcano le mani». I giovani sono tutt’al più materia da «speculazione» propagandistica, meglio se nel rituale convegno di studio o nella ricorrente campagna elettorale. In questi casi il mantra, che accomuna falsi liberali e finti riformisti, è sempre il solito: «meritocrazia»! «La logica del merito – scrive Celli – gode di un consenso persino imbarazzante, talmente generalizzato da divenire una sorta di giaculatoria stucchevole. Ne parlano i politici, che si guardano bene dall’applicarlo nella scelta di collaboratori e di futuri colleghi. Ne fa uso abbondante la logica parlata della pratica manageriale, salvo poi convenire che è forse più utile selezionare sulla base delle fedeltà esibite di quanto non serva puntare su competenza e affidabilità».

Ma questo è tutto. Non si va oltre, a creare le reali condizioni di parità di partenza per i giovani che cercano di salire sull’ascensore sociale. La morale di Celli non è disperante. Ci sarebbe un enorme lavoro, e un¿enorme opportunità, per chi volesse affrontare il problema con umiltà e con coraggio. Ma al dunque, alla fine di queste 134 pagine belle ed intense, resta la sensazione frustrante di una battaglia purtroppo già persa, insieme alla generazione che, per una accanita crudeltà del destino, non ha potuto neanche combatterla. Per i giovani vale la mesta «disperanza» raccontata in un vecchio romanzo di José Donoso. Per gli adulti vale l’amara sentenza pronunciata a suo tempo da Cioran: «Perché ritirarsi e abbandonare la partita, quando restano ancora tante persone da deludere?». Celli non lo dice, ma lo diciamo noi: se ci fosse una sinistra, più audace dei conservatori e meno qualunquista dei rottamatori, forse saprebbe come rispondere.

di Massimo Giannini, la Repubblica, 09/11/2010

Articoli Correlati:

Leave a Reply

You can use these HTML tags

<a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

  

  

  

*