No Plan B. La 6 giorni di Copenhagen

La 6 giorni di Copenhagen inizia in un parcheggio della periferia nord-ovest milanese da cui decollera’ il viaggio del climate bus, ultima tappa di un percorso che ha raccolto ecoattivisti di Milano e non solo nelle settimane precedenti COP15. Il bus arrivera’ nella capitale danese solo dopo 22 ore e molti piu’ litri di birra, quando la prima giornata di mobilitazione avra’ gia’ lasciato spazio alla cena. A Ragnishildgade, l’head quarter degli attivisti convenuti su Copenhagen, non entra piu’ uno spillo: per dormire bisogna sistemarsi negli angoli delle stanze, nei corridoi o sulle uscite di sicurezza. Nello spazio caffetteria invece, si parla in mille lingue diverse di una prima giornata di azione che ha lasciato gia’ indicazioni precise sui giorni futuri: sulla “repressione preventiva” di una polizia che ha perquisito gli attivisti sin dalla prima mattina e ne ha trattenuti a centinaia nelle gabbie della “Klima Prison” fino a sera, ma anche sulla disorganizzazione di una giornata di azioni diffuse che doveva essere coordinata al minuto e si e’ rivelata fin troppo pasticciona. Saranno due costanti che animeranno tutta la settimana danese, purtroppo, ma questo lo si scoprira’ dopo.

Gli ecoattivisti milanesi decidono allora di giocare in casa: tutti alla Candy Factory, lo spazio che ospita la ciclofficina di Put The Fun Between Your Legs, per capire dove recuperare qualche bici e come contribuire da subito mettendo le mani nel grasso. Non succedera’ nessuna delle due cose, ma al piano di sopra la ciclofficina la serata riserva ulteriori litri di birra ad accompagnare una jam di hip-hop anglo-danese che si protrarra’ fino a tardi. Un buon benvenuto.

Il 12 dicembre Copenhagen vibra. e’ un’energia nuova a farla vibrare, e’ un embrione di movimento immenso, forte, bello e colorato. Pare una MayDay il corteo del 12 dicembre, per la ricchezza di parole e per l’energia che irradia. E’ un corteo sconfinato, 100.000 persone dicono i locali, che si apre con le organizzazioni ecologiste e si chiude con i movimenti, in mezzo di tutto e di piu’. Ma gli slogan e le parole d’ordine, alla faccia di tante divisioni sorte alla vigilia, sono gli stessi, ed anzi si compenetrano e si rispondono. Il “tck tck tck” delle ONG, che richiama al countdown verso la catastrofe imminente, risponde il “fck fck fck (the system)” del blocco anticapitalista, il cui slogan principale “system change – not climate change” rimbalza lungo tutto il corteo, fino dentro al Klima Forum. Ma su tutti emerge un unico grido, da cartello a cartello, che puo’ sintetizzare in toto questo nuovo movimento, post-ideologico e post-capitalista: “THERE IS NO PLANET B”. Non c’e’ una via d’uscita semplice, non c’e’ una seconda busta per azzerare tutto quanto…
Rimbalza tra i pochi (fortunatamente) ma energici carri e tra gli slanci di creativita’: i carretti mossi a mano con l’elefante che raccoglie il pattume del corteo o le statue della liberta’ che emettono co2 dalla torcia, come gli Yesmen che scendono in piazza chiusi in “bolle anticatasfrofe” in grado di isolare dal mondo intero e su cui sono stampati i loghi di grandi e distruttive multinazionali, o come il gruppo di giovani danesi che sfilano vestiti da lord anni ’30, in eleganti abiti color avorio, offrendo champagne al grido di “green capitalism – more money for us” o “we love the planet, but we love oil more”…
Purtroppo la giornata finira’ male: gli oltre 400 fermi preventivi, ottenuti tagliando in due un intero spezzone del corteo, resteranno una macchia grave sulla mobilitazione del 12. Sono fermi pescati a caso nel corteo, dei quali la responsabilita’ grava non solo sulla scellerata politica poliziesca danese, ma sugli organizzatori del corteo stesso, in difficolta’ nel rapportarsi con chi aveva deciso di abbandonare la linea comune, ma soprattutto non in grado di assumersi la responsabilita’ politica di un’azione del genere all’interno del corteo. Ci si trovera’ con 3/4 della manifestazione che marciano tranquillamente ignari di tutto, appelli tranquillizzanti dai carri, e dietro uno spezzone bloccato, legato e fatto a sedere in fila sul cemento gelido.
E’ il momento chiave della settimana danese: di fronte a un cambiamento ambientale cosi’ repentino svapora l’orizzontalita’ di questo embrione di movimento, troppo convinto di poter affrontare ogni mobilitazione con una tattica di gruppi di affinita’ decisamente imprecisati. E’ anche il momento che chiede un nuovo slancio a tutti i presenti, rimettendo la palla al centro delle mille assemblee degli ecoattivisti in citta’, a fronte della vaghezza delle assemblee internazionali dei mesi precedenti.
Lo si vedra’ il giorno successivo: da una parte con il caos dell’azione di blocco del porto, pressoche’ mai iniziata a causa del 100% di fermati, dall’altra con la marcia di “via campesina”, in cui e’ l’allegra energia del blocco pink, della samba band e della clown army, a trascinare i presenti in una mattinata di danze selvagge.

Ma lo slancio creativo in grado di riattivare la citta’ sara’ quello del 14, quando un corteo no border incordonato e per certi versi anche teso, anziche’ concludersi con l’ormai abituale ondata di fermi preventivi si chiude giocando: con i manifestati che staccano da terra il pallone gonfiabile da “una tonnellata di CO2” che campeggia davanti al parlamento e se lo portano con se’, correndo e spiazzando polizia ed osservatori. una protesta creativa e’ possibile anche qui, e il corteo finisce in gioco, con la polizia che si ritira alle porte di Christiania…
Ci tornera’ la sera stessa, purtroppo, in un multiplo regolamento di conti incrociati tra polizia, CJA, blocco nero e ignari bevitori che mandera’ a monte la grande festa (l’unica, ahinoi) prevista per la settimana e gettera’ tutti quanti in una nottata di panico e in una giornata, il 15, trascorsa a riprendersi dalla notte tra una confusione di assemblee per evitare una mattanza nella giornata di azione globale che chiudera’ la settimana.

“Reclaim power, push for climate justice” era il nome dato alla giornata, decisiva, del 16. un nome significativo delle due facce di questo movimento nascente: da un lato un orgoglioso slancio di potenza, dall’altro la classica strategia dei controvertici del decennio seattleiano, la violazione della “zona rossa”, “i hate summits”, insomma, per dirla con parole altrui. La potenza del 16 sara’ anomala, non certo luminosa come la marcia del 12 ma nemmeno sottotono come i risultati lasciano intendere. Il corteo di prima mattina sotto la neve sara’ si’ poco partecipato, ancora peggio andra’ ai blocchi collaterali, fermati tutti (green bloc) o inesistenti (black) nei casi migliori; finiti sugli alberi a scappare dai cani i piu’ sfortunati (bike bloc). Eppure il 16 qualcosa si e’ rotto davvero, a partire dall’interno del bella center, con i delegati dei paesi del sud e delle ONG manganellati dalla polizia danese mentre cercano di ricongiungersi alla people assembly che si svolgera’ all’esterno, tra la pressione delle camionette e l’aria intrisa di spray al peperoncino. Costera’ il posto alla chairman di COP15 e la faccia ad un meeting che si concludera’ come preannunciato: con un nulla di fatto. O peggio, con la definitiva affermazione della linea-Obama: che non e’ quella di intervenire sul climate change, ma quella di scavalcare (nuovamente) gli ambiti di discussione internazionali per lavorare su side agreement con interlocutori economicamente privilegiati. La Cina su tutti, ça va sans dire.

La 6 giorni di Copenhagen si chiude qui, chiusi tra cordoni e blindati in una strada tra i campi, con il Bella Center visibile in lontananza (si chiudera’ con l’attesa della liberazione dei fermati e altre ore di bus e birra, in realta’). Con l’impressione che l’intensita’ delle giornate non sia stata proporzionale ai risultati possibili di questo quasi-movimento.
A Copenhagen non sono mancate le energie, e’ mancata l’organizzazione e la fantasia. Se un nuovo movimento ecoattivista deve nascere, e DEVE nascere perche’ oggi ce n’e’ un bisogno disperato, deve partire da questo. Dalla capacita’ di coordinarsi, trasversale ai territori e agli identarismi, con la forza vista nella marcia del 12 dicembre, dalle associazioni ambientaliste ai movimenti radicali, e la capacita’ di muoversi nelle strade. Dalla creativita’ che e’ connaturata a questo movimento, quella della corsa con il mega-pallone del corteo del 14: e’ la fantasia del precariato dell’euroMayDay che si incontra con gli eco-hacker dei Climate Camps, con lo slancio situazionista delle Critical Mass e con la tenacia di Via Campesina…
A Copenhagen sono state proposte risposte vecchie a domande nuove, vecchie nei metodi e nelle parole. Copenhagen deve rappresentare lo slancio per un movimento ecoattivo in grado di pedalare sulle sue gambe e di rilanciarsi con la sua crativita’. Altrimenti si andra’ avanti ad avere ragione, come scienza e fatti vanno dimostrando quotidianamente, ma non si riuscira’ a seminare nulla. Nemmeno con i contadini (e il Caos) dalla nostra parte.

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