Sciopero Commercio: cosa c’è che non va?

Lo scorso dicembre, si è svolto lo sciopero del Commercio. Una data propizia, a ridosso della sbronza natalizia, per rompere le uova alle catene commerciale. Eppure quasi nessuno se ne è accorto. Perchè? Occorre riflettere sulle nuove forme di lotta, che, dobbiamo ricordarcelo, per far male, devono mordere e mordere con rabbia.

Il 21 e il 22 dicembre si è svolto lo sciopero dei lavoratori del commercio. E’ stato uno sciopero importante e avrebbe potuto diventarlo ancora di più. Importante perché il commercio, soprattutto quello rappresentato dalla grande distribuzione e dalle catene commerciali, è uno dei centri di incubazione della condizione di precarietà. Rappresenta il cuore principale  intorno al quale ruota buona parte del terziario materiale, quello che ha a che fare con la gestione e la logistica dei flussi delle merci. La filiera della distribuzione commerciale rappresenta oggi ciò che la grande fabbrica industriale rappresentava negli anni Sessanta e Settanta. Lo sviluppo produttivo di tutta la cintura del nord-ovest di Milano, da Opera a  Rho, passando per Corsico, è sempre più caratterizzata dal sorgere di enormi magazzini che si irradiano nella campagna su superfici che oramai hanno dimensioni simili a quelle delle fu fabbriche siderurgiche e meccaniche del Nord milanese. Tra addetti ai magazzini, ai trasporti, al catering, e a tutti gli altri servizi necessari alla sola logistica della merce, nell’area milanese si raggiunge un numero pari a oltre 240.000 dipendenti tra tipici e atipici (circa il 25% dell’intera occupazione milanese), superiore agli addetti complessivi dei settori industriali (22%).

Eppure, quasi nessuno si è accorto dello sciopero. Eppure, il prodotto dell’attività di distribuzione commerciale non può essere delocalizzato, è rigido, perché è nei centri commerciali che si vende. In altre parole, il luogo di vendita (così come il trasporto delle merci fisiche) rappresenta un collo di bottiglia e una rigidità nell’organizzazione produttiva reticolare diffusa sul territorio.

Proviamoci a ragionare. Lo sciopero nella tradizione della lotta operaia industriale era uno strumento che bloccava la produzione e proprio per questo mordeva, faceva male ed era efficace. Se a ciò si aggiungeva il sabotaggio delle macchine, meglio ancora: il grado di efficacia cresceva.

Oggi la produzione è solo in minima parte qui da noi. Qui da noi, nei nostri territori, vi è invece il consumo, ovvero la vendita. Lo strumento di lotta più efficace non è più impedire la produzione ma piuttosto bloccare la vendita. E per bloccare la vendita, vi sono due possibilità.

La prima è impedire che le merci arrivino al punto di vendita. E’ quello che è successo con lo sciopero degli autotrasportatori. I consumatori non potevano comprare non perché il punto di vendita (supermercato o pompa di benzina) fosse chiuso, ma perché era vuoto. Lo stesso è avvenuto in passato con il blocco del trasporto pubblico senza preavviso a Milano (400.000 persone non hanno potuto raggiungere il proprio posto di lavoro) oppure alla Fiat, con il blocco dei bisarchisti che alla fine degli anni ’90 alla Fiat hanno di fatto imposto il blocco della produzione.

La seconda possibilità è rendere difficile il raggiungimento dello stesso punto di vendita, tramite una serie di impedimenti nella circolazione e nel trasporto delle persone o tramite azioni mirate a bloccare l’accesso alle aree con maggior concentrazione di centri commerciali.

Se nel primo caso, si tratta di bloccare il flusso delle merci, nel secondo si tratta di bloccare il flusso delle persone.  Non si tratta dunque di fare sciopero, ma di fare BLOCCO. E le realtà metropolitane, oggi concentrazione territoriale di punti di vendita, richiedono sempre più come forma di azione non tanto o strumento dello sciopero, ma piuttosto quello del blocco. E ciò vale soprattutto in una condizione di debolezza della forza-lavoro come conseguenza della diffusione della condizione precaria.

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