Il totalitarismo dell’era presente

nazioneindiana.com – 11 novembre 2011

Siamo arrivati al capolinea. Adesso inizia un’altra corsa. A guidare l’aereo più pazzo del mondo c’è Mario Monti. Già international advisor di Goldman Sachs (il cui ruolo nello scatenamento della crisi globale è noto), e membro di Trilateral e Bilderberg, insomma il gotha del capitalismo mondiale. Non sarà che con lui la finanza ha preso il controllo diretto del paese, dopo che il messo Silvio Berlusconi ha fallito per eccesso di amor proprio? Del resto proprio Monti ha affermato: “Berlusconi va ringraziato, nel ’94 ci salvò dalla sinistra di Occhetto e avviò la rivoluzione liberale in Italia”. Ma appunto poi questa rivoluzione liberale non è stata fatta, e allora ci si prendono le chiavi di casa. Consegnate direttamente dai derubati, peraltro, implorando mercé.

Nessuno, sui grandi media, dice una verità essenziale: che il 90% dei derivati – lo strumento principale della speculazione finanziaria internazionale – è controllato da cinque grandi società (Deutsche Bank, Goldman Sachs, Morgan Stanley, UBS, HSBC). Nessuno dice che 10 banche e Sim (società di intermediazione mobiliare) controllano circa il 70% dei flussi finanziari mondiali: un controllo indiretto, nel senso che non ne hanno evidentemente la proprietà, ma li gestiscono e ne determinano il senso. Questo controllo oligopolistico globale determina conseguenze molto concrete sulle vite delle persone. Per questo si parla di biopotere.
Così, adesso, si è deciso di attaccare l’Italia. Come ha ben spiegato Andrea Fumagalli, uno degli economisti più lucidi in circolazione, non c’erano motivi particolarmente drammatici per arrivare al collasso in cui siamo precipitati. Il rapporto debito-pil viaggia al 120%, più o meno come vent’anni fa. Più preoccupante, se mai, la situazione degli Usa, dove il rapporto è del 100%, dove però cinque anni fa era al 60%. I motivi, allora, sono inerenti alla stessa logica interna al finanzcapitalismo.
Dopo che la Goldman Sachs ha fatto a pezzi la Grecia (vedi qui), la Deutsche Bank ha fatto a pezzi l’Italia.
Seguo ancora Fumagalli: da aprile 2011 la Deutsche Bank ha iniziato a vendere 8 miliardi di Btp: non molto, ma nel meccanismo emulativo proprio dei mercati finanziari (dove la determinazione del valore dipende da comportamenti mimetici, basati sull’autorevolezza dell’attore) ciò ha generato aspettative che si sono espanse a macchia d’olio. Di qui, la quotazione dei titoli alla borsa di Londra, che a maggio era ancora 102, a giugno scende a 90. Questa è schock economy. Oppure possiamo anche chiamarlo terrorismo finanziario.
Perché la Deutsche Bank ha fatto questo? Perché se attivi aspettative al ribasso, il valore degli altri titoli che assicurano contro il fallimento – i Cds, credit default swaps – schizzano alle stelle. Il valore di questi Cds infatti è salito di cinque volte. E chi detiene gran parte di questi titoli assicurativi? Cinque società, e più degli altri la Deutsche Bank stessa. La Deutsche Bank ha fatto un doppio guadagno: prima ha venduto i Btp a un prezzo buono (poi appunto si sono deprezzati), dopodiché ha generato enormi plusvalenze grazie al rialzo dei Cds.
A questo occorre aggiungere poi il ruolo che la Germania ha successivamente svolto nello scaricare la crisi sui Btp salvaguardando le sue banche piene di quei titoli tossici che hanno dato origine alla crisi mondiale (vedi qui).
Insomma, tutto sembra dirigersi verso una direzione chiara: sacrificare un intero paese alle logiche delle plusvalenze. Chi è in grado, adesso, di impedire la macelleria sociale che verrà? C’est la lutte finale, verrebbe da cantare.

di Marco Revelli

 

Report San Precario incontra Toni Negri

Prossimo appuntamento:

Mercoledì 6 Aprile Incontro con Giorgio Cremschi

Ontologia della precarietà. Dopo il 14 dicembre

Uninomade.org – 21 dicembre 2010

Le mobilitazioni e le lotte degli ultimi mesi hanno visto in azione figure molte diverse tra loro, dagli studenti ai migranti, dai ricercatori agli operai fino all’esplosione del 14 dicembre a Roma. Usano tutte una lingua comune che fa ancora (incredibilmente) fatica a farsi intendere e che necessita perciò di traduzioni forti e chiare. Parlano dell’era della precarietà ontologica che stiamo attraversando e che ritrova adesso accenti nuovi e nuove suggestioni.

Facilmente sfugge questo tratto effettivamente “comune”, che pure è ciò che fa la “differenza”. Combattendo per/nella propria situazione lavorativa, per abitudine, cultura, tradizione, riflesso, si tende a esporre la propria condizione professionale, il mestiere che si fa, il “ruolo”, che si ricopre all’interno della società – e che è proprio ciò che la norma socio-economica contemporanea impone e, contemporaneamente, scompagina e manda in crisi. E’ il retaggio dell’etica di un lavorismo in frantumi che si fa malinconico e reazionario: si esiste perché si lavora e si fa “quel” particolare lavoro i cui contorni non esistono più. A che cosa serve rincorrerli? La logica secondo la quale è il diritto al lavoro a sancire il diritto all’esistenza fa fatica a essere superata, tuttavia (non ci pare una notizia) tutto è già successo da un pezzo. Lavoratrice del call center, magazziniere o lavoratore della conoscenza, ciò che unisce questi soggetti è la medesima precarietà ontologica. Non è più il tempo di farci prendere dal rimpianto, dal senso della perdita e del vuoto che dà la vertigine: questa gamma così ampia di figure del lavoro e del non-lavoro è potenzialmente potente, si presta ad alleanze inedite, assai composite e larghe, per nulla corporative, dove minore è lo spazio della battaglia per il lavoro e maggiore quella per l’umano – che detta anche nuovi scopi al conflitto. Fossimo capaci di comprendere bene i toni di questa lingua, sarebbe giàrevolution.

Siamo almeno vicini a una svolta? L’elevata radicalità espressa dalla piazza del 14 dicembre ci parla esplicitamente dell’emergere di questo sentimento “comune” che comincia a non aver più freni: è il sentito della condizione precaria che esonda e con ciò travalica e tracima il senso di appartenenza a ogni vecchia categoria del mondo. Quanto meno, rotazione.

La condizione di precarietà ha assunto, nel tempo, forme nuove. Il lavoro umano, nel corso del capitalismo, è sempre stato caratterizzato da precarietà più o meno diffusa a seconda della fase congiunturale e dei rapporti di forza di volta in volta dominanti. Così è successo in forma massiccia nel capitalismo pretaylorista e così è stato, seppur in forma minore, nel capitalismo fordista. Ma, in tali periodi, si è sempre parlato di precarietà della condizione di lavoro: lo svolgimento di un lavoro prevalentemente manuale implicava in ogni caso una distinzione tra il tempo di lavoro e tempo di vita, inteso come tempo di non lavoro o tempo libero. La lotta sindacale del XIX e del XX secolo è sempre stata tesa a ridurre il tempo di lavoro a favore del tempo di non lavoro. Nella transizione dal capitalismo industriale-fordista a quello bio-cognitivo, il lavoro cognitivo e relazionale si è diffuso sino a definire le modalità principali della prestazione lavorativa. Viene meno la separazione tra uomo e la macchina che regola, organizza e disciplina il lavoro manuale. Nel momento stesso in cui il cervello e il bios (la vita) diventano parte integrante del lavoro, anche la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro perde senso. Ecco allora che l’individualismo contrattuale, che sta alla base della precarietà giuridica del lavoro, tracima nella soggettività degli stessi individui, condiziona i loro comportamenti e si trasforma in precarietà esistenziale.

Nel bio-capitalismo cognitivo, la precarietà è, in primo luogo, soggettiva, quindiesistenziale, quindi generalizzata. È, perciò, condizione strutturale interna al nuovo rapporto tra capitale e lavoro, esito della contraddizione tra produzione sociale e individualizzazione del rapporto di lavoro, tra cooperazione sociale e gerarchia.

La condizione precaria non è oggi ancora in grado di esprimere una classe “precaria”, non esiste un processo omogeneo di presa di coscienza. Diversamente dalla condizione lavorativa manuale, per la quale era la condizione oggettiva di lavoro, in quanto “esterna” alla persona, a determinare  il livello di coscienza di sé, nel bio-capitalismo cognitivo, se la prestazione lavorativa diviene quasi totalmente interiorizzata, la presa di coscienza o è autocoscienza o non è.

Qui sta il nodo che definisce oggi la composizione sociale del lavoro contemporaneo e quindi la sua composizione politica. Qui sta la drammaticità della condizione precaria. Il 14 dicembre – anche al di là delle intenzioni degli organizzatori – rappresenta invece il primo momento di rivolta dei soggetti a tale condizione.

Nel nome della lotta alla precarietà (spesso stupidamente concepita come “abolizione del precariato”: ma quando mai, nel Novecento, si è parlato di abolizione del “proletariato”? Piuttosto si è puntato a un suo superamento…), si sono commesse nefandezze ideologiche.  Perché? Perché si è fatta fatica a indagare la complessità (moltitudine) del soggetto precario. Perché, al contempo, si è preferito considerare la condizione precaria come condizione “oggettiva” e non come espressione di una soggettività molteplice. Perché la precarietà è stata interpretata come espressione di una condizione lavorativa che si presenta immediatamente e “neutralmente” uniforme e omogenea.

Non è un caso che il termine “precario” sia fin troppo abusato di questi tempi ma ciò non toglie che  non si parli di condizione precaria. Piuttosto si parla di singoli segmenti di lavoro precario (il ricercatore universitario, l’interinale metalmeccanico, il migrante), ovvero di componenti della condizione precaria, quasi a voler a tutti i costi individuare un particolare soggetto economico, centrale, avanguardistico, che faccia da detonatore alle lotte di tutti gli altri.

Se si vuole analizzare la composizione sociale e politica del lavoro contemporaneo, il tema della precarietà deve essere assunto come paradigmatico del rapporto capitale-lavoro e non come conseguenza di una specifica (specifiche) situazione lavorativa. E’ necessario invertire l’ordine dei fattori. Non è la condizione operaia (pensando alle recenti lotte della Fiom e dei metalmeccanici), non è la condizione dei lavoratori dei call-center e, più in generale, dei servizi materiali (coop di magazzinaggio, ecc., ecc.), non è la valorizzazione delle condizioni dei lavoratori della conoscenza (dall’università ai media), ad essere precarizzata, ma è la condizione precaria a essere il paradigma che fa da cerniera a tutte queste diverse condizioni di lavoro insieme. E ciò avviene prendendo a modello il lavoro migrante e il lavoro femminile di cura e relazione.

Si tratta di una differenza sostanziale e politica. Si tratta di riconoscere che la condizione precaria, soggettivamente percepita in modo differente, viene prima dell’essere migranti, chainworker, operai, cognitari. Occorre prendere atto che la nuova divisione del lavoro va oltre la divisione settoriale e smithiana del lavoro.

A metà ottobre, a Milano si sono svolti gli Stati Generali della Precarietà: un primo tentativo di mettere al centro la condizione precaria, (/stati-generali-2010). Si tratta, infatti, di sviluppare un punto di vista precario, ovvero una proposta di ricomposizione sociale della soggettività precaria che sul tema della garanzia di reddito e della riappropriazione del comune costruisca per intero – nel modo più preciso e consapevole – la propria identità conflittuale. Un nuovo appuntamento degli Stati Generali della Precarietà è previsto per metà gennaio, sempre a Milano.

Benedetto Vecchi, sulle pagine de Il Manifesto ha fatto bene a richiamare la necessità di indire a breve gli Stati generali della Conoscenza. Essi si dovrebbero, tuttavia, collocare all’interno di un percorso che vede negli Stati Generali della Precarietà un momento ricompositivo e politicamente rilevante: è la condizione precaria che ha soprattutto bisogno di assumere sempre maggior coscienza di sé. Altrimenti, il rischio è quello di continuare a proporre punti di vista innovativi e interessanti ma frammentati e parziali, ancora una volta ingabbiati solo nella propria particolarità professionale. A proposito di lavoratori della conoscenza: più di un anno fa, sono stati redatti il “Manifesto” e la “Carta dei diritti dei lavoratori della conoscenza” (/materiale). Testi innovativi e radicali, che hanno ottenuto ampio consenso, ma si sono dimostrati incapaci di creare e sviluppare quelle sinergie necessarie a ricomporre la capacità conflittuale del precariato.

L’insorgenza del 14 dicembre a Roma esige attenzione. Per la prima volta, una nuova generazione precaria (guarda caso, non definibile nei termini della segmentazione tradizionale del lavoro) si è fatta sentire. Non facciamo finta anche noi di non capire che cosa dice.

di ANDREA FUMAGALLI e CRISTINA MORINI

Precarietà, condizione generalizzata

Liberazione – 10 ottobre 2010

Oggi la precarietà è sempre di più oggetto del dibattito politico e della rappresentazione mediatica. Non c’è programma di approfondimento della televisione in cui non si faccia riferimento alla problematica. La crisi economica e finanziaria globale, inoltre, accentuando il processo di precarizzazione, ha incrementato l’attenzione su questo fenomeno.

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Il biopotere della finanza

Brevi note sulla crisi dell’eurozona

di Andrea Fumagalli

Nel testo “Dieci tesi sulla crisi finanziaria” e nei saggi di Stefano Lucarelli e Christian Marazzi, pubblicati nel volume collettaneo di UniNomade, “Crisi dell’Economia Globale” (Ombre Corte, 2009), i mercati finanziari vengono definiti forma di “biopotere”. Credo sia necessario partire da questa definizione per comprendere cosa sta avvenendo in Europa e in particolare in Grecia.

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