GeneRealmente2.0 – secondo incontro sulla violenza di genere

GeneRealmente 2.0
Bologna, 6-7 marzo 2010

Ci siamo incontrat@ a Milano il 22 novembre 2009 per mantenere la promessa di non lasciar cadere nel vuoto l’episodio di violenza maschile avvenuto ad una di noi alla Mayday 2009.

Siamo partit@ dall’idea che il movimento ha bisogno di lavorare su pensieri e pratiche che si oppongano al sessismo, sul lungo periodo, nei territori e negli spazi, per trovare strumenti di sovversione dei  modelli culturali che alimentano la violenza di genere e per sviluppare strumenti pratici e comunicativi per agire contro la violenza nei nostri luoghi e oltre essi.

Erano presenti numerosi ed eterogenei gruppi da diverse parti d’Italia:  il risultato è stata una discussione appassionata, interessantissima, ricca di spunti.

Per questo la scommessa continua!

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Middle class: donne sull’orlo della bancarotta

di Naomi Wolf

Mentre il mondo lotta per uscire dal semi-collasso economico dello scorso anno, c’è un sottogruppo che è scivolato al di sotto della linea di galleggiamento: le donne che un tempo appartenevano al ceto medio.

Mentre il mondo lotta per uscire dal semi-collasso economico dello scorso anno, c’è un sottogruppo che è scivolato al di sotto della linea di galleggiamento: le donne che un tempo appartenevano al ceto medio. Secondo un’inchiesta recente, quest’anno in America un milione di queste donne comparirà davanti al tribunale fallimentare. Un numero superiore, dice l’economista Elizabeth Warren, a quello delle donne che «prenderanno la laurea, avranno una diagnosi di cancro o chiederanno il divorzio». La loro difficile situazione – sintomatica di una condizione comune nel mondo – contiene una lezione utile per tutte noi.
Queste donne rovinate sono più istruite dei loro omologhi maschi: la maggior parte ha fatto l’università, più della metà è proprietaria della casa dove vive. A farle cadere da uno stile di vita medio-borghese a redditi di poco al di sopra del limite di povertà sono stati verosimilmente tre fattori: due economici e uno emotivo.

In primo luogo, queste donne nuotano nei debiti. Molte hanno lavori che impongono di tuffarsi nelle linee di credito solo per stare a galla. Altre sono state bersagliate – e raggiunte – dai produttori di beni di lusso e dalle società che emettono carte di credito, che beneficiano del modo in cui la cultura di massa lega certi tipi di consumo – gli abiti all’ultima moda, la borsa-must della stagione, l’ultimo modello di auto sportivo – ai racconti di una femminilità di successo.

Questa pressione non è limitata agli Stati Uniti. Nuove classi medie stanno emergendo globalmente e riviste come Cosmopolitan e Vogue si rivolgono, con gli stessi identici beni di lusso, a donne dell’India e della Cina appena ascese socialmente – molte delle quali appartengono a una generazione che, per la prima volta nella storia delle loro famiglie, dispone di un suo reddito.

La seconda ragione di questa bancarotta femminile è che una legge del 2005 contrappone nei tribunali le donne – che non possono permettersi costosi pareri legali – ai gestori di carte di credito per stabilire chi venga primo nei pagamenti quando l’ex marito, mancando ai suoi doveri, nega sia l’assegno di mantenimento dei figli sia il saldo degli acquisti.

C’è poi un terzo fattore, di cui poco si parla: le attese emotive e le proiezioni sul denaro. Nel programma sulla leadership delle giovani donne cui io collaboro al Woodhull Institute, vediamo regolarmente che ragazze del ceto medio – in percentuale superiore a quelle della classe operaia – provano imbarazzo a parlare di denaro. Quando lo devono introdurre in un colloquio – per esempio con il loro datore di lavoro – si scusano con parole controproducenti. Sono restie a negoziare lo stipendio e raramente sanno come farlo.

Ritengono che chiedere del denaro in cambio del lavoro sia «poco femminile». Danno per scontato che lavorare il doppio degli altri – senza mai chiedere riconoscimenti del loro valore – porterà un aumento perché qualcuno di importante se ne accorgerà.

Queste giovani donne tendono anche ad avere un’idea poco realistica delle loro finanze. Spesso non si curano di risparmiare perché danno per scontato – ancora! – che a salvarle economicamente arriverà il matrimonio. Per loro l’acquisto di un paio di scarpe costose o un bel taglio dei capelli è un «investimento» per un futuro romantico. E non si preoccupano di fare piccoli investimenti mensili. Questo cliché è spesso vero anche per le borghesi più anziane, che non sanno gestire le finanze della famiglia, perché hanno sempre delegato ai mariti il compito di pagare contributi, mutui, tasse e assicurazioni. Così, in caso di divorzio o vedovanza, sono economicamente vulnerabili.

Paradossalmente, le donne della classe operaia (e quelle di colore) raramente si rifiutano di interessarsi alle questioni economiche. Secondo la nostra esperienza, esse tendono a padroneggiare l’abc delle finanze e imparano a negoziare il salario, perché non possono permettersi il lusso di aspettare un cavaliere su un cavallo bianco che arriva a salvarle economicamente.

Questo pragmatismo economico delle donne povere è la ragione del successo, nel mondo in via di sviluppo, del microcredito, che mette il denaro nelle mani femminili. Sarei sorpreso se le donne borghesi nel resto del mondo – cresciute considerando certe forme di ignoranza e ingenuità economica come socialmente appropriate – riuscissero, senza un duro apprendimento, a essere affidabili e accorte come quelle più povere dimostrano di essere.

«Financial intimacy», l’ultimo saggio di Jacquette Timmons, una talentuosa coach finanziaria, fornisce delle verità che sarebbero state preziose per qualunque donna della classe media ora in crisi: «Oggi molte guadagnano ben più delle generazioni precedenti. Questo però non ha prodotto un più alto grado di sicurezza economica». La colpa è del tabù di-soldi-non-si-parla. Le donne della middle class ovunque nel mondo lo supereranno quando noi tutte avremo capito che i soldi non sono mai solo soldi e che diventare economicamente preparate significa allontanarsi dal ruolo sociale assegnato alle donne: quello di persone educate, economicamente assenti, sottopagate e abbagliate dallo shopping. Tutte le altre tremende pressioni che le spingono alla rovina continueranno a esistere, ma almeno un numero crescente di loro le affronterà con gli occhi bene aperti e, si spera, con molte alternative migliori.


Cartoline dalla Cina #4

china4Violenze di genere in Cina

Il 30 per cento delle donne cinesi subisce o ha subito violenza maschile, sia fisica, psicologica o sessuale. Lo ha affermato alcune settimane fa a Pechino la vice presidente della Federazione delle donne cinesi (ACWF la sigla in inglese) Yan Zhen.

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Comunicato n°2 – Giornata di riflessione sulla violenza di genere

GENEREalmente Flyer

Domenica 22 novembre 2009 -Dalle 10 alle 17 – Milano, via Pichi 3 (MM  Porta Genova – ex spazio Mimesis)

L’anno scorso durante la Mayday, il primo maggio dei precari e delle precarie, è avvenuto un fatto gravissimo: una violenza sessuale ai danni di una ragazza. Le violenze avvengono in casa, avvengono sul  lavoro, avvengono ovunque, e nemmeno i nostri luoghi ne sono immuni.


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