Ontologia della precarietà. Dopo il 14 dicembre

Uninomade.org – 21 dicembre 2010

Le mobilitazioni e le lotte degli ultimi mesi hanno visto in azione figure molte diverse tra loro, dagli studenti ai migranti, dai ricercatori agli operai fino all’esplosione del 14 dicembre a Roma. Usano tutte una lingua comune che fa ancora (incredibilmente) fatica a farsi intendere e che necessita perciò di traduzioni forti e chiare. Parlano dell’era della precarietà ontologica che stiamo attraversando e che ritrova adesso accenti nuovi e nuove suggestioni.

Facilmente sfugge questo tratto effettivamente “comune”, che pure è ciò che fa la “differenza”. Combattendo per/nella propria situazione lavorativa, per abitudine, cultura, tradizione, riflesso, si tende a esporre la propria condizione professionale, il mestiere che si fa, il “ruolo”, che si ricopre all’interno della società – e che è proprio ciò che la norma socio-economica contemporanea impone e, contemporaneamente, scompagina e manda in crisi. E’ il retaggio dell’etica di un lavorismo in frantumi che si fa malinconico e reazionario: si esiste perché si lavora e si fa “quel” particolare lavoro i cui contorni non esistono più. A che cosa serve rincorrerli? La logica secondo la quale è il diritto al lavoro a sancire il diritto all’esistenza fa fatica a essere superata, tuttavia (non ci pare una notizia) tutto è già successo da un pezzo. Lavoratrice del call center, magazziniere o lavoratore della conoscenza, ciò che unisce questi soggetti è la medesima precarietà ontologica. Non è più il tempo di farci prendere dal rimpianto, dal senso della perdita e del vuoto che dà la vertigine: questa gamma così ampia di figure del lavoro e del non-lavoro è potenzialmente potente, si presta ad alleanze inedite, assai composite e larghe, per nulla corporative, dove minore è lo spazio della battaglia per il lavoro e maggiore quella per l’umano – che detta anche nuovi scopi al conflitto. Fossimo capaci di comprendere bene i toni di questa lingua, sarebbe giàrevolution.

Siamo almeno vicini a una svolta? L’elevata radicalità espressa dalla piazza del 14 dicembre ci parla esplicitamente dell’emergere di questo sentimento “comune” che comincia a non aver più freni: è il sentito della condizione precaria che esonda e con ciò travalica e tracima il senso di appartenenza a ogni vecchia categoria del mondo. Quanto meno, rotazione.

La condizione di precarietà ha assunto, nel tempo, forme nuove. Il lavoro umano, nel corso del capitalismo, è sempre stato caratterizzato da precarietà più o meno diffusa a seconda della fase congiunturale e dei rapporti di forza di volta in volta dominanti. Così è successo in forma massiccia nel capitalismo pretaylorista e così è stato, seppur in forma minore, nel capitalismo fordista. Ma, in tali periodi, si è sempre parlato di precarietà della condizione di lavoro: lo svolgimento di un lavoro prevalentemente manuale implicava in ogni caso una distinzione tra il tempo di lavoro e tempo di vita, inteso come tempo di non lavoro o tempo libero. La lotta sindacale del XIX e del XX secolo è sempre stata tesa a ridurre il tempo di lavoro a favore del tempo di non lavoro. Nella transizione dal capitalismo industriale-fordista a quello bio-cognitivo, il lavoro cognitivo e relazionale si è diffuso sino a definire le modalità principali della prestazione lavorativa. Viene meno la separazione tra uomo e la macchina che regola, organizza e disciplina il lavoro manuale. Nel momento stesso in cui il cervello e il bios (la vita) diventano parte integrante del lavoro, anche la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro perde senso. Ecco allora che l’individualismo contrattuale, che sta alla base della precarietà giuridica del lavoro, tracima nella soggettività degli stessi individui, condiziona i loro comportamenti e si trasforma in precarietà esistenziale.

Nel bio-capitalismo cognitivo, la precarietà è, in primo luogo, soggettiva, quindiesistenziale, quindi generalizzata. È, perciò, condizione strutturale interna al nuovo rapporto tra capitale e lavoro, esito della contraddizione tra produzione sociale e individualizzazione del rapporto di lavoro, tra cooperazione sociale e gerarchia.

La condizione precaria non è oggi ancora in grado di esprimere una classe “precaria”, non esiste un processo omogeneo di presa di coscienza. Diversamente dalla condizione lavorativa manuale, per la quale era la condizione oggettiva di lavoro, in quanto “esterna” alla persona, a determinare  il livello di coscienza di sé, nel bio-capitalismo cognitivo, se la prestazione lavorativa diviene quasi totalmente interiorizzata, la presa di coscienza o è autocoscienza o non è.

Qui sta il nodo che definisce oggi la composizione sociale del lavoro contemporaneo e quindi la sua composizione politica. Qui sta la drammaticità della condizione precaria. Il 14 dicembre – anche al di là delle intenzioni degli organizzatori – rappresenta invece il primo momento di rivolta dei soggetti a tale condizione.

Nel nome della lotta alla precarietà (spesso stupidamente concepita come “abolizione del precariato”: ma quando mai, nel Novecento, si è parlato di abolizione del “proletariato”? Piuttosto si è puntato a un suo superamento…), si sono commesse nefandezze ideologiche.  Perché? Perché si è fatta fatica a indagare la complessità (moltitudine) del soggetto precario. Perché, al contempo, si è preferito considerare la condizione precaria come condizione “oggettiva” e non come espressione di una soggettività molteplice. Perché la precarietà è stata interpretata come espressione di una condizione lavorativa che si presenta immediatamente e “neutralmente” uniforme e omogenea.

Non è un caso che il termine “precario” sia fin troppo abusato di questi tempi ma ciò non toglie che  non si parli di condizione precaria. Piuttosto si parla di singoli segmenti di lavoro precario (il ricercatore universitario, l’interinale metalmeccanico, il migrante), ovvero di componenti della condizione precaria, quasi a voler a tutti i costi individuare un particolare soggetto economico, centrale, avanguardistico, che faccia da detonatore alle lotte di tutti gli altri.

Se si vuole analizzare la composizione sociale e politica del lavoro contemporaneo, il tema della precarietà deve essere assunto come paradigmatico del rapporto capitale-lavoro e non come conseguenza di una specifica (specifiche) situazione lavorativa. E’ necessario invertire l’ordine dei fattori. Non è la condizione operaia (pensando alle recenti lotte della Fiom e dei metalmeccanici), non è la condizione dei lavoratori dei call-center e, più in generale, dei servizi materiali (coop di magazzinaggio, ecc., ecc.), non è la valorizzazione delle condizioni dei lavoratori della conoscenza (dall’università ai media), ad essere precarizzata, ma è la condizione precaria a essere il paradigma che fa da cerniera a tutte queste diverse condizioni di lavoro insieme. E ciò avviene prendendo a modello il lavoro migrante e il lavoro femminile di cura e relazione.

Si tratta di una differenza sostanziale e politica. Si tratta di riconoscere che la condizione precaria, soggettivamente percepita in modo differente, viene prima dell’essere migranti, chainworker, operai, cognitari. Occorre prendere atto che la nuova divisione del lavoro va oltre la divisione settoriale e smithiana del lavoro.

A metà ottobre, a Milano si sono svolti gli Stati Generali della Precarietà: un primo tentativo di mettere al centro la condizione precaria, (/stati-generali-2010). Si tratta, infatti, di sviluppare un punto di vista precario, ovvero una proposta di ricomposizione sociale della soggettività precaria che sul tema della garanzia di reddito e della riappropriazione del comune costruisca per intero – nel modo più preciso e consapevole – la propria identità conflittuale. Un nuovo appuntamento degli Stati Generali della Precarietà è previsto per metà gennaio, sempre a Milano.

Benedetto Vecchi, sulle pagine de Il Manifesto ha fatto bene a richiamare la necessità di indire a breve gli Stati generali della Conoscenza. Essi si dovrebbero, tuttavia, collocare all’interno di un percorso che vede negli Stati Generali della Precarietà un momento ricompositivo e politicamente rilevante: è la condizione precaria che ha soprattutto bisogno di assumere sempre maggior coscienza di sé. Altrimenti, il rischio è quello di continuare a proporre punti di vista innovativi e interessanti ma frammentati e parziali, ancora una volta ingabbiati solo nella propria particolarità professionale. A proposito di lavoratori della conoscenza: più di un anno fa, sono stati redatti il “Manifesto” e la “Carta dei diritti dei lavoratori della conoscenza” (/materiale). Testi innovativi e radicali, che hanno ottenuto ampio consenso, ma si sono dimostrati incapaci di creare e sviluppare quelle sinergie necessarie a ricomporre la capacità conflittuale del precariato.

L’insorgenza del 14 dicembre a Roma esige attenzione. Per la prima volta, una nuova generazione precaria (guarda caso, non definibile nei termini della segmentazione tradizionale del lavoro) si è fatta sentire. Non facciamo finta anche noi di non capire che cosa dice.

di ANDREA FUMAGALLI e CRISTINA MORINI

Intervista a Pantaleo (Flc Cgil)

Il Manifesto – 21 luglio 2010

Roberto Ciccarelli

«Il disegno di legge Gelmini sull’università è inemendabile. Va solo ritirato. Questo dovrebbero dire domani le opposizioni in Senato – afferma Domenico Pantaleo, segretario della Federazione dei lavoratori della conoscenza (Flc) della Cgil – Bisogna proporre un modello radicalmente alternativo contro il progetto del governo che mette in competizione gli atenei, ridimensiona il ruolo dei Senati accademici, accentra il potere nelle mani dei rettori, cancella la ricerca dall’università, oltre che il diritto allo studio».

È una critica al Pd che ha comunque promesso di dare battaglia in Senato?
Non voglio insegnare nulla alla politica, né la politica ha qualcosa da insegnare al sindacato. Che il Ddl sia inemendabile lo dicono i ricercatori che si asterranno dalla didattica non obbligatoria il prossimo anno accademico, gli studenti, la parte più avveduta dei docenti e molti organi accademici che si sono espressi in questo senso.
I sostenitori della riforma Gelmini sostengono che sono tutte persone che difendono lo status quo dell’università…
Dobbiamo intenderci su cosa significa «status quo». Per me è quello che vuole fare un governo che non ha alcuna intenzione di sbarrare la strada alle baronie e anzi impone il blocco del turn-over contro i giovani ricercatori e rende inutile il proposito della Gelmini di abbassare l’età pensionabile dei docenti a 65 anni. Sono d’accordo con la battaglia contro gli sprechi nella scuola e nell’università, ma per essere davvero efficace bisogna eliminare il sistema clientelare e reinvestire tutti i risparmi nella didattica e nella ricerca, nei programmi e nel diritto allo studio.

È possibile che il governo accetti di rifinanziare l’università dopo l’approvazione della riforma?
È così, ma questo paradigma dev’essere ribaltato. Approvare il Ddl non significa che verranno ritirati i tagli al fondo ordinario di finanziamento degli atenei che nel 2011 sarà di un altro 17 per cento. I tagli che Tremonti ha imposto alla Gelmini produrranno la deflagrazione del sistema. Il prossimo anno 37 atenei non riusciranno a chiudere il bilancio.

L’opposizione alla riforma cresce ma è ancora frammentata. La Crui ha una posizione debole in attesa di segnali dal governo. Non c’è il rischio che in autunno la mobilitazione resti isolata?
È un rischio evidente. Il nostro problema non è solo quello di costruire un movimento in autunno, ma di evitare la sua corporativizzazione. Per questo abbiamo bisogno di una seria interlocuzione con la politica che è mancata due anni fa durante il movimento dell’Onda. L’autonomia dei movimenti è importante, ma non basta se non coinvolge la società.

Cosa proponete di fare quando il Ddl arriverà alla Camera e incrocerà la nuova finanziaria?
Non possiamo più giocare di rimessa, dobbiamo proporre un’alternativa radicale. Per farlo c’è bisogno di unificare le lotte dei ricercatori con quelle degli studenti, degli enti di ricerca, dei precari e dei genitori nella scuola in un percorso collettivo.
Stiamo lavorando per convocare gli stati generali della conoscenza a Roma per fine ottobre. Il nostro obiettivo è creare un’alleanza sociale in cui il sindacato sia una parte importante, ma solo una parte.

Questa agenda l’avete proposta l’anno scorso quando avete convocato un’assemblea con i ricercatori precari alla Sapienza, ma non sembra avere avuto molto seguito nella Cgil…
Se non sostiene un altro modello di welfare, di sviluppo e di lavoro, il sindacato rischia di condannarsi all’inifluenza. Non abbiamo alternative.
Nella società esiste un largo consenso sul fatto che i saperi e la conoscenza siano l’unico strumento per uscire dalla crisi. In più costituiscono un fattore per sradicare l’antropologia del berlusconismo. La lotta contro la precarietà, per il reddito, per un nuovo welfare e i beni comuni sono il fondamento di un nuovo progetto sociale.

La grande maggioranza dei lavoratori della conoscenza sono intermittenti, lavorano a progetto o in autonomia, pochi saranno stabilizzati, gli altri no. Per difendere queste persone non c’è bisogno di un salto culturale anche da parte del sindacato?
Dobbiamo impegnarci su entrambi i fronti. Al lavoro cognitivo però devono essere riconosciute le garanzie contro tutte le forme di precarietà, ma anche la dignità sociale. Per farlo è necessario creare un sistema del welfare universale e non solo lavoristico che garantisca a tutti un sostegno indipendentemente dal lavoro svolto, ma che serva ugualmente ad accompagnare verso un lavoro. Solo così questo paese riuscirà a dare una risposta alla disperazione esistenziale delle nuove generazioni.

Lavoratori della conoscenza. Si riparte

Nord Italia, Milano. Nella fabbrica cognitiva nuova di zecca, disegnata dall’archistar per gli azionisti che gliel’hanno commissionata (formula “massimo ribasso”), il cellulare non prende. L’ottimizzazione della produzione, innanzitutto. Non perdete tempo a telefonare ma scrivete, editate testi, impaginate. Fateci controllare quanti pezzi fornite ciascuno, e in quanto tempo. Quanti siete, qui? Siete troppi. E lasciate perdere la “vostra” vita, per cortesia. Il desiderio di vita corrompe, fa perdere di vista, ancora una volta, la produzione. Datela a noi la vita, che è una risorsa. Umana. Se non vi garba, siete fuori. Il futuro del lavoro dovrebbe funzionare così: su dieci, otto fuori e quei due unici rimasti, soli, dentro, a pedalare come pazzi, senza sosta e senza orari.

Prosegui la lettura »