Una crisi critica con poca critica

E’ interessante notare come la crisi
finanziaria attuale abbia in pochissimo tempo modificato il modo di
ragionare di molta parte degli operatori economici, dei cosiddetti
esperti e degli economisti.

Ciò che fino a ieri era considerato il
male assoluto, l’interventismo statale nei processi di regolazione
(o, meglio, deregolazione) del libero mercato, oggi diviene la
panacea di ogni male. Siamo convinti che si tratta di posizioni
assolutamente opportunistiche, come ben ha evidenziato il recente
intervento di Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, secondo
la quale l’intervento dello Stato è più che legittimo (anzi
"raccomandabile") quando si tratta di salvare imprese in
difficoltà. Una logica simile ha contraddistinto l’iter
parlamentare che ha portato all’approvazione del Piano Poulson
negli Stati Uniti. Simili decisioni vengono invocate anche in Europa,
come dimostra l’appello di alcuni dei più noti economisti
"liberali di sinistra" (Boeri, Giavazzi, Tabelloni, Alesina,…)
reperibile sul sito www.lavoce.info, ma con esiti più incerti.

Insomma, si presenta di nuovo il
classico leit motiv della "socializzazone delle perdite per
garantire di nuovo in futuro la privatizzazione dei profitti". Tuttavia, vi sono elementi di novità
che evidenziano come questa crisi non sia facilmente catalogabile
come un "incidente" di percorso nella dinamica capitalistica.

In primo luogo, si tratta di una delle
crisi finanziarie più lunghe della storia: cominciata nell’agosto
del 2007, non terminerà tra breve. Il contesto ciclico vede fasi
espansive della borsa non più lunghe di tre anni, un intervallo
temporale anomalo che potrebbe far immaginare un ciclo depressivo di
poco inferiore al ciclo espansivo. Una crisi, dunque, che non può
essere definita congiunturale, bensì strutturale. Dato reso
evidente dal fatto che non si tratta di una crisi dovuta a carenza di liquidità
istituzionale da sovraproduzione (come avvenne nel ’29), bensì a
insolvenza.

In secondo luogo, fattore ancora più
importante, la crisi nasce e si sviluppa all’interno di quello che
è il cuore del capitalismo cognitivo contemporaneo. Non riguarda un
settore marginale, bensì il luogo dove si materializzano i profitti
e si decidono le strategie di finanziamento dell’accumulazione. La
riduzione del valore dei titoli, infatti, non colpisce solo gli
intermediari finanziari, ma ha effetti pervasivi anche sulla
contabilità delle holding multinazionali, sulla quota di reddito da lavoro differito e non
differito che dipende dalle borse, sui livelli occupazionali, sulla
possibilità di assicurazione privata delle istanze di vita (sanità
e istruzione, ad esempio) all’interno dei modelli di workfare anglosassoni (e
non solo). Nel frattempo, la fase recessiva dell’economia reale è
già cominciata.

All’intervento statale con prestiti
di ultima istanza tramite la costituzione di un fondo di garanzia
per far fronte a possibili e repentini crack si aggiune anche il
ruolo di "azionista di ultima istanza" da parte delle Banche
Centrali, in particolare dalla Federal Riserve americana. Cosa
significa? Significa che – per la prima volta nella storia del
capitalismo – una banca centrale crea liquidità tramite l’acquisto
di titoli finanziari a elevato rischio (di fatto carta straccia)
direttamene dai mercati privati e non più dagli Stati (come avveniva
negli anni Settanta). Di fatto, l’autorità monetaria diventa un
agente speculativo con funzioni di garanzia in attesa che gli indici
di borsa risalgano. Ne consegue che anche le Banche Centrali in caso
di carenza di liquidità possono essere soggetto a fallimento. Non è
un caso che in quest’ultimo mese, in modo più o meno concordato,
le Banche centrali del globo (dall’Australia, alla Cina, al
Giappone sino a Occidente) abbiano immesso liquidità nei mercati
finanziari per un valore suprioe a tre miliardi di dollari (quasi 5
volte l’ammontare del piano Poulson). Si tratta comunque un goccia
nel mare, e si considera che la Bri (Banca dei Regolamenti
Internazionali) stima il valore dei derivati in circolazione in circa
556 trilioni di dollari (pari a 11 volte il Pil mondiale). Nel corso
dell’ultimo anno, tale valore si è ridotto di oltre il 30% per
perdite di gran lunga superiori agli interventi monetari finora
realizzati.

L’unica chance a questo punto è una
ripresa della fiducia nelle magnifiche sorti progressive del
capitalismo finanziario. Essa si può basare su un programma di
ristrutturazione dell’apparato produttivo che ricada sulle
popolazioni e sui lavoratori più poveri e su annunci di solidità
virtuale della struttura finanziaria (banche e assicurazioni in primo
luogo). E’ in quest’ottica che si spiega la necessità di
salvaguardare i depositi bancari.

In tale quadro l’Europa sconta in
modo grave le modalità di costruzione della moneta unica. Aver
puntato tutto in modo ideologico e liberista sulla politica monetaria
senza aver costruito una politica di budget europeo (inesistenza di
una politica fiscale comune e omogenea) impedisce, infatti, che a
fronte della crisi, l’Europa possa agire in modo coordinato con
politiche fiscali anticicliche; non è un caso che oggi, dopo la
decisione di Irlanda, Grecia e Germania, di garantire i propri
depositi, si vada in ordine sparso.

In ultima istanza, è la solidità
delle economie asiatiche e l’enorme liquidità ivi cumulata con i
surplus commerciali a rappresentare l’ancora di salvezza. Ma ciò
segna la fine dell’egemonia monetaria e finanziaria del dollaro e
della finanza anglosassone. Destino inevitabile dopo 500 anni di
depredazione del resto del globo.

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