Copenhagen/movimenti. Punto e a capo

Molto probabilmente fallirà il COP15 di Copenhagen, anche se alla fine usciranno dichiarazioni possibiliste circa un accordo che richiama Kyoto, ma senza l’enfasi dimostrata dai capi di stato e di governo dodici anni fa.

Perché un dato risulta incontrovertibile e soprattutto non negoziabile: il limite di 350 parti per milione di CO2 è già ora stato sfondato nel mondo globale delle multinazionali che distruggono il pianeta e un limite a 480, come si vocifera al Bella Center non è altro che una presa in giro che non tiene affatto conto del cambiamento climatico.

Ecco perché gli slogan della manifestazione del 12 dicembre, “System change not climate change” e “fuck, fuck fuck the system”, hanno istituìto, sulla verità della crisi globale, l’unico piano alternativo allo sviluppo attuale: il disfacimento del capitalismo, delle sue logiche neoliberiste e la presenza di singolarità radicali che invece di parlare agiscono.

E’ stato questo infatti uno dei leit-motiv che ha visto in piazza a Copenaghen centomila persone, la “natura non si negozia”, ed è stato per questo che la polizia ha provveduto ad arrestare 1100 partecipanti alla protesta, con il pretesto della violenza del black bloc etc.

Ma il teatro approntato dai paesi ricchi del nord del mondo, oggi per lo più ammantati di verde e “consapevoli” dell’urgenza di un cambiamento climatico che è l’effetto del “coal trade”, delle politiche di crescita economica fondate sulle energie fossili, il teatro a cui siamo abituati da Seattle a Genova a Rostock, di pochi “facinorosi” che rovinano un corteo pacifico, stavolta non è andato in scena.

Intanto perché anche centomila donne e uomini hanno rifiutato sabato scorso l’apparente non-violenza (in realtà la violenza delle lobbies del carbone e del petrolio è devastante) dei negoziati Onu in corso al Bella Center; poi perché la pratica riformista e ecologo-socialista di “isolare” i violenti non ha avuto corso in quanto la cosiddetta minoranza climattivista non è una minoranza e ha dalla sue le ragioni dell’urgenza del climate change; infine perché ciò che ha contato di più e che conterà nella giornata del 16 prossimo con le proteste di fronte al Bella Center, è che o la cosiddetta opinione pubblica mondiale si schiera con le proteste o con i “negoziati”.

Perché i movimenti eco e anarcoecoradicali sono oggi l’unica realtà possibile: dal movimento dei movimenti di Praga e Genova, sfasciato dai maldestri tentativi di “sinistre” strutture di partito in nome della non-violenza e mentre le destre andavano al governo in quasi tutta Europa, dal radicamento nei territori dislocati dell’Impero è salita la difesa e la costruzione del “comune”, incentrata soprattutto sulla salvaguardia di beni primari, oggi a rischio di privatizzazione: acqua, aria, cibo, trasporti, servizi, welfare.

Cosa racconta Copenaghen? Che l’idea stessa di un negoziato globale gestito dall’ONU per conto dei grandi della terra non è sostenibile se mai lo è stata. Da una parte gli USA che con l’Europa è il principale responsabile del cambiamento climatico e di un modello di sviluppo distruttivo; dall’altra la Cina che, latrice di nuovo sviluppo capitalistico è oggi il global player più importante perché rappresenta l’ago della bilancia tra occidente e Africa, Asia, America Latina; infine i paesi del cosiddetto G77, dal Brasile al Camerun, dall’India alla Colombia che rappresentano la reale alternativa al dominio. La partita dell’ONU si giuoca tra questi tre attori che tuttavia come prima della rivoluzione francese hanno diritti ineguali: Europa e USA con la presidenza danese spingono per una soluzione moderata alla distribuzione di quote di CO2, mentre i G77 dicono chiaramente che la responsabilità storica della distruzione del pianeta e della crisi globale è dell’occidente.

Di fronte a questa realtà un movimento costituente riesce a intercettare , forse a differenza che nel decennio precedente, la connessione locale-globale, in cui il piano del territorio tenta di risolvere la crisi di quello mondiale e lo fa in assenza di un diritto internazionale, di un diritto alla salvaguardia dei beni comuni, alla giustizia climatica, alla libera sovranità sulle risorse.

Ecco perché, come ricordano anche Naomi Klein e Vandana Shiva, la questione ecologica non è affatto una sovrastruttura di quella economica ma è l’intreccio stesso di capitalismo e lotta per i commons.

E’ questo il livello a cui accede un nuovo ecologismo a Copenhagen. Un ecologismo che ha finalmente perso la sua caratura nostalgica e antisviluppista, tipo “ritorno alla terra” e “abbasso le tecnologie”, per dispiegarsi in rete nella condivisione e nell’autorganizzazione del comune, tentata del resto in questi anni nei territori metropolitani da cognitari, studenti, precari della ricerca e dei servizi, spazi sociali.

E’ in questo orizzonte che la difesa dei commons diventa costruzione di nuovo welfare, non più esigibile secondo le logiche del lavoro subordinato, ma del reddito; non più realizzabile secondo il modello pubblico-privato (vedi privatizzazione delle acque) ma del “comune”, che vuol dire cooperazione e autonomia di scelte, oltre lo stato e le sue istituzioni decentrate; non più come effetto di una mediazione sulla base di diritti acquisiti, ma come presa diretta di parola e di un agire che crea nuova legalità: occupazioni, difesa degli spazi, autoformazione.

Questo è il livello in cui oggi si declina la questione ecologica, che non può avere sbocchi separando crisi del liberismo e crisi delle risorse non rinnovabili; ecnomia “verde” e uso delle tecnologie per produrla; separare crescita e sviluppo è infatti un errore madornale poiché la cosiddetta “decrescita” può essere uno dei molti strumenti che le popolazioni hanno per fronteggiare la crisi planetaria. Ma non può certo essere la sola alternativa in presenza di una moltiplicazione esponenziale dei bisogni della natura umana.

Conviene allora richiamare Marx che indicava nella storia naturale lo strumento idoneo a liberare la natura umana e nell’ “intelletto generale” il compito di fuoriuscire dal capitalismo e liberare l’umanità, adesso, nell’attuale era post-umana.

 

paolo b. vernaglione

Laboratorio filosofico “sofiaroney.org”

 

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