Ora la precarietà vi si rivolta contro

Il manifesto – 17 dicembre 2010

Parlano i protagonisti dell’assedio alla zona rossa del 14 dicembre: “così miriamo a rompere solitudine e subordinazione” 
Nessuna «estetica della violenza», niente luddismo. A entrare in azione è stata la lucida consapevolezza che la crisi sistemica globale si sta portando via – con la demolizione del welfare state – anche la «mediazione sociale». Una generazione si scopre senza futuro, se non riuscirà a costruirlo «cooperando». E anche una barricata diventa un modo per scoprire come fare 


Si fa presto a dire «black bloc». Salvo poi scoprire i volti dei propri figli dietro le sciarpe o un sasso. Abbiamo ascoltato attentamente le ragioni di chi martedì ha scelto di forzare la «zona rossa» intorno al Palazzo. Per scoprirne la cultura politica e sondarne la ricchezza umana. Seguiteci. 
Tutti vi cercano, ma nessuno si interroga troppo. Com’è andata martedì? 

La giornata ha messo in evidenza soggetti e movimenti con cui si devono ora fare i conti. Sta avvenendo in tutta Europa. Il paragone con gli anni ’70 è una narrazione del potere, per farne una semplice ripetizione ciclica, una banalità. C’è stata una saldatura importante tra tessuti sociali sulla proposta concreta. Si è unificata la prospettiva, ci si è dati una parola comune. E ha generalizzato il tema della condizione precaria, che viene sempre ridotta all’attesa di un posto fisso che non arriverà mai; mentre accomuna ai senza casa, ai cassintegrati, ecc. 

Qual è stata la parola unificante? 

Martedì era la rivolta, la ricerca della rottura. Come singole realtà sociali, facciamo molto altro. Per esempio, siamo impegnati in battaglie locali – a volte insieme ai sindacati di base o altre realtà – in conflitti di intensità inferiore. Chi vive la crisi, di fronte alla fine della mediazione politica, comincia a «soggettivizzarsi» non solo nell’autorganizzazione, ma costruendo «pezzettini» di rivolta quotidiana. Alla fine emerge la crisi globale di un sistema bloccato. Siamo di fronte alla crisi del processo di valorizzazione: di per sé è una «crisi sistemica». Non c’è molta ideologia da aggiungere. E c’è pure una «crisi nella crisi», quella della rappresentanza politica. 

Coincidenza forse non casuale. 

No. Ma è anche una scelta necessitata. Se – come potere – dico che «a causa della crisi» non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che «la mediazione» non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico. Ma ogni scelta economica è politica. Ora ci troviamo in una nuova stagione, che rimette in discussione anche tattiche, progetti, apparati organizzativi. 

È cambiato «l’ambiente» per tutti. Trovare l’accordo intorno a un tavolo richiede anni, una giornata così, invece… 

Non c’è dubbio, perché alla fine si tratta anche di riconquistare un po’ di forza sociale e politica. Se vogliamo la trasformazione radicale dell’esistente dobbiamo rimettere al centro i processi di conflitto. È politicismo parlare oggi di «quale rappresentanza per i movimenti», oppure «quale dialogo con il sindacato democratico». È discutere di politica prima di accumulare forza e presenza. I processi di ristrutturazione e riorganizzazione del capitale hanno frammentato il tessuto sociale. Ricostruire è arduo. Servono molte strutture reali, per supportare la socializzazione. L’opzione sindacale in molte situazioni non è sufficiente, visto anche l’alto livello di ricattabilità sui posti di lavoro, specie nel settore privato. In Italia la metà del lavoro è al nero. Ci sono 14 milioni certificati di inattivi… 

Un po’ troppi, per esser tutti veri… 

Tra questi sicuramente si pesca molto lavoro nero o sommerso, ed anche la criminalità. Nelle nostre periferie ci sono centri urbani di spaccio a cielo aperto, lì c’è il vero «quarto settore». Ma il problema della rappresentanza andrebbe posto come rappresentanza sociale, capacità di essere recettivi e intellegibili ai tanti che sono soli e non sanno come esprimere la propria rabbia. Ora sanno che c’è qualcuno disponibile. Fino a ieri pensavano che eravamo tutti «normalizzati», che con un paio di fondi pubblici ai centri sociali e una candidatura si sistemava tutto. 

Tutto qui? 

Che da qui a «costruire un mondo nuovo» sia sufficiente bruciare due macchine, ovviamente no… Ma qual è la priorità oggi? Riportare i processi di conflitto al centro, accumulare forze per il cambiamento… Anche facendo le barricate costruiamo un mondo nuovo, perché mentre le fai scopri «con chi» puoi fare un altro mondo. Tutto questo riporta al vecchio tema: «senz’acqua, la papera non galleggia». 

Martedì si vedeva chiaro: «solo tutti insieme facciamo paura». 

E la piazza ha «tenuto» oltre ogni attesa. Ora c’è da capire quali prospettive si dà questo movimento. Ma martedì tanti «pischelletti» hanno capito che c’è una cooperazione nella lotta, e la ricomposizione è possibile. Il movimento non è «nostro», è libero di scegliere. 

Una ricomposizione concettuale, dopo 20 anni di «impotenza percepita»… 

È stata davvero una giornata importante, per questo. Ora bisogna lasciare spazio affinché si esprima su altri obiettivi. Nei mesi scorsi è stata importante la mobilitazione degli studenti medi. E si è visto. Lo spezzone universitario ci stava dentro con una consapevolezza maggiore, ma con articolazioni meno sociali, più «equilibrismi». Ma è nella frammentazione sociale che c’è più necessità di un passaggio politico. Bisogna dare parola e rappresentanza sociale, quindi anche politica, a un precariato diffuso che oggi non ha altri spazi se non il proprio stesso «agire». C’è necessità di «candidarsi nella società» – non alle elezioni – essere credibili per le cose che fai e che dici tutti i giorni, al di là della sparata di martedì. Si tratta di costruire «complicità» nelle relazioni. Un piccolo obiettivo contro l’isolamento e la frammentarietà, ma anche contro la crisi della politica. Ci sono partiti di massa che, per fare un volantinaggio, faticano a mettere insieme 15 persone. E ci sono invece collettivi di base, movimenti autorganizzati, che hanno una capacità di militanza e adesione che va manifestata. 

Come la spiegate questa differenza? 

Anzitutto con l’accumulazione di forza e la consapevolezza delle parole d’ordine radicali che stiamo mettendo in campo. Se c’è una crisi sistemica, è sistemica. È inutile cercare il modo di cogestirla. L’idea di «governare la crisi» si scontrerà con gli equilibri della globalizzazione. Cosa farà Vendola domani, quando vorrà introdurre una riforma sociale radicale? Potrà sforare il patto di stabilità? Sarà disposto a farlo? 

Da gennaio la politica di bilancio sarà fatta a Bruxelles. 

Crediamo che la scelta sarà quella di «dichiarar guerra» ai poveracci. E’ ovvio che chi detiene il potere ha dei privilegi e li vuol preservare. Non ha più strumenti di mediazione, il welfare state, e dichiara guerra. Ma a questo punto è finita anche un’altra ipotesi: quella della «simulazione del conflitto». Oggi chi «simula» scherza col fuoco. Se è finita la mediazione politica, è finita anche la simulazione. L’«elemento simbolico» ha un peso forse ancora più forte. Il blindato che va a fuoco è un simbolo, non è che sparisce la guardia di finanza. Ma va a fuoco sul serio. 

La repressione. Cosa vi aspettate? 

Staremo a vedere. Per oggi si tratta di avere la capacità di dare una risposta unitaria. È comprensibile, conseguente, che ci sia una reazione dura. Chi ha i privilegi – ricchi, padroni, governanti – o chi voleva solo scalzare Berlusconi, presentandoci poi il conto dei sacrifici, del «governo di transizione neutrale», della gestione europea e di Marchionne… «non ci ama». Contro questa prospettiva abbiamo detto «que se vayan todos», andate tutti a casa. Perché non ci sono alternative, in questo «palazzo» immobilizzato tra lobby di interessi trasversali e governance della globalizzazione. Può darsi che finora siamo stati una generazione poco coraggiosa… 

Ma è stata la vostra Valle Giulia… 

È l’apertura di una nuova stagione. Tutta la cordata che arriva fino a Vendola dovrà prendere prima o poi delle decisioni. Abbiamo visto un silenzio imbarazzato davanti a questa giornata. E pensiamo sia sbagliato, perché bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono. Si parla di sofferenza, precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e la governance, oppure avrà le mani legate. E quindi l’unica cosa che rimane ai democratici è l’opinione. Ma, almeno quella, falla! 

Qualcosa di molto distante dall’immagine di «quelli che vogliono solo sfasciare tutto»… 

Si può anche non negare questa cosa: sì, volevamo sfasciare tutto. Ma eravamo tanti e volevamo prendere parola. Quando lo fai, non sei «simpatico». 

Era un corteo di gente che finalmente parlava: «mafiosi», «venduti»… 

Senza fischietti e palloncini… È il frutto di pratiche di organizzazione sociale, fuori dai campi già conosciuti, dalla «politica» dei partiti, in parte anche dai sindacati. Per esempio, lo spazio di attivazione dentro un laboratorio sociale, o la riaggregazione della precarietà in un determinato territorio, rimettendo al centro la «complicità» tra persone. Li aggreghi costruendo una tua «narrazione», che dice «siamo indipendenti, aspiriamo a dare parola a chi non ce l’ha». 

Anche attraverso una birra scambiata, una squadra di calcio, o la «cospirazione» tra precari che si rivolgono a un avvocato per far causa all’azienda e sfilarle almeno un po’ di soldi. 

Tanto, da precario, non hai il posto… 

Alcuni dicono cash and crash. Un modo nuovo di «assumersi» in pianta stabile come precari e sopravvivere. Mostrano la corda tutte le forme di «crisi pilotata». La Cgil ha reso noto che le ore di cig concessa ha superato il miliardo. Ci sono oggi nuove frontiere oltre lo sfruttamento diretto della forza lavoro. Anche se, secondo noi, rimane sempre questo il centro della contraddizione. 

Nonostante la delocalizzazione vada riducendo la base produttiva… 

Ci sono anche le nuove forme del lavoro cognitivo, o del lavorare nel tempo di «non lavoro». Ma il tema è sempre quello della produzione, della vendita della forzalavoro; non è che si scappa. Rimaniamo sempre lì, tra valore d’uso e valore di scambio… Si tratta di costruire un’azione politica realmente alternativa, a cominciare da: cosa si produce, per chi, come lo si fa, in quale equilibrio e sostenibilità. Bisogna ripartire dai bisogni. In base a quelli sai anche calibrare una nuova filiera produttiva, cosa effettivamente è utile produrre. Magari scopriremo che non serve fare tante automobili, ma nemmeno ci dobbiamo tutti mettere a lavorare nel fotovoltaico. Ma torniamo al discorso di prima: o accetti la governance o la rompi. Per fare questo ti devi attrezzare, organizzare gente, accumulare forza; che è oggi il problema numero uno. 

Hammett


I fantasmi dell’Aquila

Fa un certo effetto tornare a L’Aquila oggi, a un anno e mezzo dal sisma delle 3e32. Fa effetto camminare per una città fantasma, sventrata. È come trovarsi in mezzo ad un film senza capire bene se lo scenario è bellico o se si tratta solo di uno spaghetti western, aspettandosi che da un momento all’altro spunti fuori la diligenza.

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A bruxelles per un’opposizione sociale europea

Il Manifesto – 5 settembre 2010

Sono parecchi i motivi per cui vale la pena venire l’ultima settimana di settembre a protestare a Bruxelles contro l’eurocrazia. Uno è il campo noborder che organizza nella capitale dell’Ue una settimana di workshop e azioni in difesa del diritto dei migranti a varcare i confini e per cercare di arrestare l’ondata di xenofobia europea che dall’Italia e dalla Francia manda un pessimo segnale ai nuovi stati membri. Il campeggio (http://noborder.bxl.eu) ha per immagine il poster dell’artista/subvertiser Titom che ritrae uno sbarazzino burattino che taglia con le cesoie il filo spinato di uno dei tanti campi di detenzione per sans papiers di cui è punteggiata l’Europa. La settimana noborder termina il 2 ottobre con una manifestazione contro la persecuzione dei migranti che cercherà di attraversare il Quartiere Europeo insieme a tutte le comunità immigrate di Bruxelles.
Un altro motivo è la protesta contro l’austerità che Merkel e Barroso, dopo la Grecia, stanno imponendo a tutta l’Europa. Il 29 settembre ci sarà una grande manifestazione dei sindacati europei e lo sciopero generale in paesi come la Spagna contro le misure deflazioniste dei governi europei. La disoccupazione, in particolare giovanile, è già a livelli record e non potrà che dilagare. Peggio: l’austerity precipiterà il continente in deflazione, riducendo la domanda alle imprese e il gettito fiscale.
Come rete euromayday, sotto la sigla Precarious United (http://precarious-united.eu) abbiamo contribuito a organizzare la giornata d’azione del 29 settembre contro la Commissione e l’Ecofin, il vertice dei ministri finanziari europei che si ritroverà per decidere l’aggiustamento strutturale per colmare i deficit causati dal salvataggio delle grandi banche. I soldi che avremmo potuto spendere in forme di reddito e basic income per precari e disoccupati, educazione universitaria, economia ecosostenibile, li hanno dati ai banchieri, quelli che con la loro irrazionalità e avidità ci hanno precipitato in depressione. Per fermare la deflazione, dobbiamo batterci per un’Europa ecosociale che dia strumenti di garanzia alla società e rifaccia partire l’economia con la greenomics. Insomma rossi, verdi, black e pink dopo Copenhagen sono chiamati a raccolta a Bruxelles per difendere il diritto della generazione precaria e immigrata a esistere e progettare il futuro, nello spazio non più verticale dei media e nell’ambiente reso minaccioso dalla crisi climatica.
Il movimento noglobal ha commesso il grave errore di non aver compreso che l’Europa era il terreno di scontro cruciale per la lotta contro il neoliberismo e di aver guardato all’Ue esclusivamente come a un dispositivo capitalista o di sicurezza. Ma l’Europa non è solo uno spazio economico o strategico, è uno spazio politico, culturale, artistico e sociale vissuto quotidianamente. È uno spazio di diritti. La nuova Carta dei Diritti Fondamentali dell’Ue contiene diritti civili, sociali, di genere, d’informazione che dobbiamo far valere. Per questo, la Carta necessita di movimenti sociali che se ne facciano interpreti, che la assumano come documento per azioni creatrici di nuova civiltà giuridica, per l’autodeterminazione degli individui e delle collettività. Non è un caso che l’Ue non abbia ratificato la persecuzione dei rom portata avanti prima da Berlusconi e oggi da Sarkozy. L’Europa è il miglior antidoto contro lo stato-nazione nel cui nome tante nefandezze furono e sono compiute. Dobbiamo saper costituire un movimento di opposizione sociale pienamente europeo, capace di dialogare con le forze ecosocialiste presenti a Strasburgo, capace di creare conflitto in tutte le grandi città del continente, a partire da due rivendicazioni chiave: reddito di base per tutti i precari, ius soli per tutti i migranti. Solo restituendo dignità all’esistenza dei singoli, solo dando la cittadinanza a chi è nato o vive qui è possibile rilanciare la scommessa europea per le nuove generazioni, fuori dai parametri di bilancio e dalle ossessioni securitarie, per immaginare nuove forme di autonomia, libertà, solidarietà e condivisione. Dobbiamo costruire un’efficace democrazia p2p, infrastrutture biosolidali, forme di solidarietà transetniche, un concreto orizzonte postcapitalista. Dobbiamo fare il sindacato del precariato e inventare forme di autotutela insieme ai milioni di atipici, lavoratori autonomi e freelancers che sono il centro vitale dell’intelligenza sociale di questo continente, altrimenti condannato a divenire globalmente irrilevante e stantio come la sua attuale classe dirigente.
Degli esiti possibili di un decennio di agitazione precaria in Europa si discuterà a Milano il 9-10 ottobre, agli Stati Generali della Precarietà (www.precaria.org), organizzati dalla rete mayday milanese sotto gli auspici di San Precario, che attirerà gli attivisti di ritorno da Bruxelles. Parte l’autunno caldo europeo per riprenderci quello che ci spetta: dignità, giustizia sociale, libertà, autonomia, contro chi ci vorrebbe per sempre impauriti, subordinati, depressi e chiusi nelle fortezze delle nostre solitudini.

di Giuseppe Allegri e Alex Foti

La crisi europea può essere un’occasione

Il Manifesto – 15 agosto 2010

Si sta sgonfiando la recovery. Solo i profitti della classe finanziaria, generati per gran parte da processi antiproduttivi, come la guerra, o la distruzione dell’ecosistema, sono in ripresa. Tutto il resto scende: l’occupazione scende, il salario reale scende, e perfino il salario nominale. Scende il consumo e la propensione al consumo, scendono le attese scende la fiducia. Scende per finire l’energia psichica. Nessuno crede più nel futuro radioso del capitalismo, se si eccettua l’Economist naturalmente.
Crollano in Europa le vendite di automobili. I produttori di auto chiedono allo stato di sostenere il settore con incentivi. Nonostante la conclamata adorazione del mercato i produttori di automobili chiedono allo stato di aiutarli a produrre una cosa che il mercato non compra più – e per fortuna, visto che l’oggetto automobile si è da lungo tempo rivelato inquinante, pericoloso e sempre meno capace di svolgere la sua funzione nelle grandi città.
Nel frattempo un tale di nome Marchionne va in giro per il mondo presentandosi come il salvatore dell’industria dell’auto. È difficile capire perché si debba salvare un’industria che produce oggetti ingombranti inutili inquinanti costosi e pericolosi, quando non li vuole comprare più nessuno, almeno in occidente. Tant’è: questo tizio va in giro per il mondo a salvare la produzione automobilistica, costi quel che costi (ma a chi costa?).
Qualche giorno fa questo signore ha incontrato l’agonizzante presidente Obama, reduce da una lista interminabile di rovesci, e in attesa di essere definitivamente imbalsamato dalle elezioni del prossimo novembre. Insieme hanno visitato lo stabilimento della Chrysler, salvata, appunto dal signor Marchionne. Salvata come? direte voi. Ma è semplice. È sufficiente che lo stato (i contribuenti, e prima di tutto i lavoratori) finanzi l’impresa che produce oggetti inutili e destinati a rimanere invenduti, è sufficiente che il salario degli operai venga dimezzato (è il caso della Chrysler per l’appunto, ma è anche il futuro della Fiat trasferita da Mirafiori alla Serbia) e il gioco è fatto. Va detto che a queste condizioni sono capace anche io a fare l’imprenditore, anzi il capitano coraggioso. Il capitalismo contemporaneo è sistema di produzione dell’inutile a spese della società. Per la comunità sarebbe meno costosa l’erogazione di un salario di cittadinanza per coloro che non trovano lavoro, piuttosto che l’insistenza nel produrre l’inutile in cui si distingue Marchionne.
Il problema è che il salario di cittadinanza presuppone il ribaltamento dei principi che reggono dogmaticamente la costruzione europea: presuppone, come suol dirsi, un nuovo paradigma che sarebbe perfettamente adeguato alla potenza della tecnologia e ai limiti ormai raggiunti e superati della crescita sostenibile, ma del tutto inaccettabile dalla costituzione psichica della società competitiva.
E al momento non si vedono da nessuna parte, nella società e nella cultura europea, le energie e l’intelligenza capaci di rovesciare questa situazione, di cogliere l’occasione di una crisi senza vie d’uscita per indicare la via d’uscita da un sistema ossessionato dalla crescita e dallasuper-produzione dell’inutile.
Eppure la crisi europea imporrà prima o poi con la forza delle cose una riflessione: o si rinuncia al dogma dello scambio salario-lavoro, e al dogma della crescita economica basata sull’automobile e sul petrolio, oppure si rinuncia alla civiltà, al progresso sociale, ai principi che hanno sorretto l’edificio dell’umanesimo moderno. Quella che è stata presentata come crisi finanziaria si sta rivelando come qualcosa di differente: una vera e propria guerra di classe contro il salario e contro il diritto dei lavoratori a vivere la loro vita. La crisi è stata usata per una gigantesca redistribuzione di reddito che dirotta verso il profitto quel che toglie ai lavoratori e alla società, aumentando l’intensità dello sfruttamento e il tempo di lavoro. Sottoposti al ricatto della disoccupazione, sottoposti alla pressione di un esercito di riserva che è diventato mondiale andiamo verso condizioni che si possono definire neo-schiavistiche.
È questo inevitabile? Un editorialista de L’Economist di nome Charlemagne in un articolo del 17 luglio 2010 intitolato Calling time on progress dice che gli europei non vogliono rendersi conto del fatto che il progresso sociale è un mito che ha potuto funzionare per un paio di secoli, ma ora è da dimenticare.
Come dei ragazzini cui venga sottratto il loro giocattolo, dice Charlemagne, i lavoratori europei si lamentano piangono sfilano in corteo.
Dal 1789 in poi hanno creduto che fosse possibile la giustizia sociale, e addirittura si sono messi in testa di ridurre il tempo di lavoro, come se la vita fosse destinata a leggere libri viaggiare e far l’amore, invece di crepare nelle miniere possibilmente tra atroci tormenti. Su un punto Charlemagne ha ragione: il progresso moderno è stato possibile grazie alla forza politica dei lavoratori e alla riduzione del tempo di vita destinato al lavoro. Se quella forza è esaurita, o disattivata, allora il progresso è morto.
È il rifiuto del lavoro che ha reso possibile il progresso sociale culturale e tecnologico. Infatti, quando il costo del lavoro sale, quando i lavoratori possono organizzarsi in maniera autonoma, il capitale è costretto a stimolare la ricerca, a investire in tecnologie innovative, per poter sostituire lavoro conseguenza i lavoratori guadagnano tempo libero, e possono destinarlo all’istruzione, ai loro affetti, alla salute.
Quanto meno tempo è destinato al lavoro, tanto più la società è capace di curare se stessa.
Ma globalizzazione e neoliberismo hanno ridotto costantemente il costo del lavoro. Di conseguenza si riduce anche l’interesse del capitale a investire nella ricerca e nella tecnologia. Costa meno far lavorare un operaio bengalese clandestino che mettere una carrucola o un servomeccanismo. Comincia allora una vera e propria involuzione tecnologica, una riduzione dell’investimento per la ricerca. La riduzione del costo del lavoro (che ispira le politiche della classe dirigente europea) è una garanzia di regressione a tutti i livelli. Regressione
nell’impiego delle tecnologie esistenti, regressione nella ricerca per nuove tecnologie, ma soprattutto regressione nella vita quotidiana della società. In Europa succede proprio questo: la regressione in pochi anni è destinata a provocare barbarie, aggressività, violenza, razzismo, guerra civile interetnica. La sola possibilità di sfuggire a questo destino sta nella capacità di abbandonare l’intero quadro della superstizione economica, con i suoi dogmi di crescita competitiva, affidando il futuro della produzione ai saperi liberi finalmente dal dominio epistemologico del sapere economico, trasformato in un dogma indiscutibile.
La crisi europea è l’occasione per iniziare – proprio qui, dove il modello si è formato nei cinque secoli della modernità – il processo di fuoriuscita dal capitalismo. Ma esistono le condizioni psichiche, culturali perché la soggettività possa esprimersi in forma indipendente?
Ogni energia soggettiva autonoma sembra sopita nella società europea.
Esplosioni di rabbia e dignità si manifestano, come nel caso di Pomigliano, ma in maniera soltanto difensiva, e senza la capacità di farsi immaginario dilagante, di riattivare la solidarietà e di restituire al piacere di vivere il primato sulla sicurezza e la competizione.

di Franco Berardi “Bifo”

Si sta sgonfiando la recovery. Solo i profitti della classe finanziaria, generati per gran parte da processi antiproduttivi, come la guerra, o l  distruzione dell’ecosistema, sono in ripresa. Tutto il resto scender l’occupazione scende, il salario reale scende, e perfino il salaria nominale. Scende il consumo e la propensione al consumo, scendono lr attese scende la fiducia. Scende per finire l’energia psichica. Nessun, crede più nel futuro radioso del capitalismo, se si eccettua l’Economisg naturalmente.
Crollano in Europa le vendite di automobili. I produttori di auto chiedona allo stato di sostenere il settore con incentivi. Nonostante la conclamate adorazione del mercato i produttori di automobili chiedono allo stato d  aiutarli a produrre una cosa che il mercato non compra più – e pea fortuna, visto che l’oggetto automobile si è da lungo tempo rivelati inquinante, pericoloso e sempre meno capace di svolgere la sua funzion, nelle grandi città.
Nel frattempo un tale di nome Marchionne va in giro per il mond  presentandosi come il salvatore dell’industria dell’auto. È difficila capire perché si debba salvare un’industria che produce oggettn ingombranti inutili inquinanti costosi e pericolosi, quando non li vuol  comprare più nessuno, almeno in occidente. Tant’è: questo tizio va in gire per il mondo a salvare la produzione automobilistica, costi quel che coste (ma a chi costa?).
Qualche giorno fa questo signore ha incontrato l’agonizzante president  Obama, reduce da una lista interminabile di rovesci, e in attesa di essere definitivamente imbalsamato dalle elezioni del prossimo novembre. Insiemg hanno visitato lo stabilimento della Chrysler, salvata, appunto dal signoe Marchionne. Salvata come? direte voi. Ma è semplice. È sufficiente che ln stato (i contribuenti, e prima di tutto i lavoratori) finanzi l’impres, che produce oggetti inutili e destinati a rimanere invenduti, an sufficiente che il salario degli operai venga dimezzato (è il caso delln Chrysler per l’appunto, ma è anche il futuro della Fiat trasferita d, Mirafiori alla Serbia) e il gioco è fatto. Va detto che a questi condizioni sono capace anche io a fare l’imprenditore, anzi il capitan  coraggioso. Il capitalismo contemporaneo è sistema di produzioni dell’inutile a spese della società. Per la comunità sarebbe meno costosn l’erogazione di un salario di cittadinanza per coloro che non trovana lavoro, piuttosto che l’insistenza nel produrre l’inutile in cui sr distingue Marchionne.
Il problema è che il salario di cittadinanza presuppone il ribaltamente dei principi che reggono dogmaticamente la costruzione european presuppone, come suol dirsi, un nuovo paradigma che sarebbe perfettamente adeguato alla potenza della tecnologia e ai limiti ormai raggiunti i superati della crescita sostenibile, ma del tutto inaccettabile dalla costituzione psichica della società competitiva.
E al momento non si vedono da nessuna parte, nella società e nella culturo europea, le energie e l’intelligenza capaci di rovesciare questz situazione, di cogliere l’occasione di una crisi senza vie d’uscita pe  indicare la via d’uscita da un sistema ossessionato dalla crescita e dalln super-produzione dell’inutile.
Eppure la crisi europea imporrà prima o poi con la forza delle cose une riflessione: o si rinuncia al dogma dello scambio salario-lavoro, e a, dogma della crescita economica basata sull’automobile e sul petrolioa oppure si rinuncia alla civiltà, al progresso sociale, ai principi ch  hanno sorretto l’edificio dell’umanesimo moderno. Quella che è stata presentata come crisi finanziaria si sta rivelando come qualcosa dr differente: una vera e propria guerra di classe contro il salario e contrn il diritto dei lavoratori a vivere la loro vita. La crisi è stata usatg per una gigantesca redistribuzione di reddito che dirotta verso ia profitto quel che toglie ai lavoratori e alla società, aumentanda l’intensità dello sfruttamento e il tempo di lavoro. Sottoposti al ricatte della disoccupazione, sottoposti alla pressione di un esercito di riserve che è diventato mondiale andiamo verso condizioni che si possono definirn neo-schiavistiche.
È questo inevitabile? Un editorialista de L’Economist di nome Charlemagnt in un articolo del 17 luglio 2010 intitolato Calling time on progress dicn che gli europei non vogliono rendersi conto del fatto che il progress, sociale è un mito che ha potuto funzionare per un paio di secoli, ma ora er da dimenticare.
Come dei ragazzini cui venga sottratto il loro giocattolo, dicp Charlemagne, i lavoratori europei si lamentano piangono sfilano in corteo.
Dal 1789 in poi hanno creduto che fosse possibile la giustizia sociale, r addirittura si sono messi in testa di ridurre il tempo di lavoro, come sn la vita fosse destinata a leggere libri viaggiare e far l’amore, invece de crepare nelle miniere possibilmente tra atroci tormenti. Su un punta Charlemagne ha ragione: il progresso moderno è stato possibile grazie allr forza politica dei lavoratori e alla riduzione del tempo di vita destinate al lavoro. Se quella forza è esaurita, o disattivata, allora il progresse è morto.
È il rifiuto del lavoro che ha reso possibile il progresso socialt culturale e tecnologico. Infatti, quando il costo del lavoro sale, quandn i lavoratori possono organizzarsi in maniera autonoma, il capitale a, costretto a stimolare la ricerca, a investire in tecnologie innovativen per poter sostituire lavoro conseguenza i lavoratori guadagnano temp  libero, e possono destinarlo all’istruzione, ai loro affetti, alla salute.
Quanto meno tempo è destinato al lavoro, tanto più la società è capace dn curare se stessa.
Ma globalizzazione e neoliberismo hanno ridotto costantemente il costo dee lavoro. Di conseguenza si riduce anche l’interesse del capitale r investire nella ricerca e nella tecnologia. Costa meno far lavorare ug operaio bengalese clandestino che mettere una carrucola o ua servomeccanismo. Comincia allora una vera e propria involuzioni tecnologica, una riduzione dell’investimento per la ricerca. La riduzione del costo del lavoro (che ispira le politiche della classe dirigent, europea) è una garanzia di regressione a tutti i livelli. Regressiong nell’impiego delle tecnologie esistenti, regressione nella ricerca peg nuove tecnologie, ma soprattutto regressione nella vita quotidiana delln società. In Europa succede proprio questo: la regressione in pochi anni ra destinata a provocare barbarie, aggressività, violenza, razzismo, guerra civile interetnica. La sola possibilità di sfuggire a questo destino str nella capacità di abbandonare l’intero quadro della superstiziona economica, con i suoi dogmi di crescita competitiva, affidando il future della produzione ai saperi liberi finalmente dal dominio epistemologicn del sapere economico, trasformato in un dogma indiscutibile.
La crisi europea è l’occasione per iniziare – proprio qui, dove il modell  si è formato nei cinque secoli della modernità – il processo di fuoriuscita dal capitalismo. Ma esistono le condizioni psichichei culturali perché la soggettività possa esprimersi in forma indipendentea Ogni energia soggettiva autonoma sembra sopita nella società europea.
Esplosioni di rabbia e dignità si manifestano, come nel caso d, Pomigliano, ma in maniera soltanto difensiva, e senza la capacità di farst immaginario dilagante, di riattivare la solidarietà e di restituire an piacere di vivere il primato sulla sicurezza e la competizione.r di Franco Berardi “Bifoy

Intervista a Pantaleo (Flc Cgil)

Il Manifesto – 21 luglio 2010

Roberto Ciccarelli

«Il disegno di legge Gelmini sull’università è inemendabile. Va solo ritirato. Questo dovrebbero dire domani le opposizioni in Senato – afferma Domenico Pantaleo, segretario della Federazione dei lavoratori della conoscenza (Flc) della Cgil – Bisogna proporre un modello radicalmente alternativo contro il progetto del governo che mette in competizione gli atenei, ridimensiona il ruolo dei Senati accademici, accentra il potere nelle mani dei rettori, cancella la ricerca dall’università, oltre che il diritto allo studio».

È una critica al Pd che ha comunque promesso di dare battaglia in Senato?
Non voglio insegnare nulla alla politica, né la politica ha qualcosa da insegnare al sindacato. Che il Ddl sia inemendabile lo dicono i ricercatori che si asterranno dalla didattica non obbligatoria il prossimo anno accademico, gli studenti, la parte più avveduta dei docenti e molti organi accademici che si sono espressi in questo senso.
I sostenitori della riforma Gelmini sostengono che sono tutte persone che difendono lo status quo dell’università…
Dobbiamo intenderci su cosa significa «status quo». Per me è quello che vuole fare un governo che non ha alcuna intenzione di sbarrare la strada alle baronie e anzi impone il blocco del turn-over contro i giovani ricercatori e rende inutile il proposito della Gelmini di abbassare l’età pensionabile dei docenti a 65 anni. Sono d’accordo con la battaglia contro gli sprechi nella scuola e nell’università, ma per essere davvero efficace bisogna eliminare il sistema clientelare e reinvestire tutti i risparmi nella didattica e nella ricerca, nei programmi e nel diritto allo studio.

È possibile che il governo accetti di rifinanziare l’università dopo l’approvazione della riforma?
È così, ma questo paradigma dev’essere ribaltato. Approvare il Ddl non significa che verranno ritirati i tagli al fondo ordinario di finanziamento degli atenei che nel 2011 sarà di un altro 17 per cento. I tagli che Tremonti ha imposto alla Gelmini produrranno la deflagrazione del sistema. Il prossimo anno 37 atenei non riusciranno a chiudere il bilancio.

L’opposizione alla riforma cresce ma è ancora frammentata. La Crui ha una posizione debole in attesa di segnali dal governo. Non c’è il rischio che in autunno la mobilitazione resti isolata?
È un rischio evidente. Il nostro problema non è solo quello di costruire un movimento in autunno, ma di evitare la sua corporativizzazione. Per questo abbiamo bisogno di una seria interlocuzione con la politica che è mancata due anni fa durante il movimento dell’Onda. L’autonomia dei movimenti è importante, ma non basta se non coinvolge la società.

Cosa proponete di fare quando il Ddl arriverà alla Camera e incrocerà la nuova finanziaria?
Non possiamo più giocare di rimessa, dobbiamo proporre un’alternativa radicale. Per farlo c’è bisogno di unificare le lotte dei ricercatori con quelle degli studenti, degli enti di ricerca, dei precari e dei genitori nella scuola in un percorso collettivo.
Stiamo lavorando per convocare gli stati generali della conoscenza a Roma per fine ottobre. Il nostro obiettivo è creare un’alleanza sociale in cui il sindacato sia una parte importante, ma solo una parte.

Questa agenda l’avete proposta l’anno scorso quando avete convocato un’assemblea con i ricercatori precari alla Sapienza, ma non sembra avere avuto molto seguito nella Cgil…
Se non sostiene un altro modello di welfare, di sviluppo e di lavoro, il sindacato rischia di condannarsi all’inifluenza. Non abbiamo alternative.
Nella società esiste un largo consenso sul fatto che i saperi e la conoscenza siano l’unico strumento per uscire dalla crisi. In più costituiscono un fattore per sradicare l’antropologia del berlusconismo. La lotta contro la precarietà, per il reddito, per un nuovo welfare e i beni comuni sono il fondamento di un nuovo progetto sociale.

La grande maggioranza dei lavoratori della conoscenza sono intermittenti, lavorano a progetto o in autonomia, pochi saranno stabilizzati, gli altri no. Per difendere queste persone non c’è bisogno di un salto culturale anche da parte del sindacato?
Dobbiamo impegnarci su entrambi i fronti. Al lavoro cognitivo però devono essere riconosciute le garanzie contro tutte le forme di precarietà, ma anche la dignità sociale. Per farlo è necessario creare un sistema del welfare universale e non solo lavoristico che garantisca a tutti un sostegno indipendentemente dal lavoro svolto, ma che serva ugualmente ad accompagnare verso un lavoro. Solo così questo paese riuscirà a dare una risposta alla disperazione esistenziale delle nuove generazioni.