Ontologia della precarietà. Dopo il 14 dicembre

Uninomade.org – 21 dicembre 2010

Le mobilitazioni e le lotte degli ultimi mesi hanno visto in azione figure molte diverse tra loro, dagli studenti ai migranti, dai ricercatori agli operai fino all’esplosione del 14 dicembre a Roma. Usano tutte una lingua comune che fa ancora (incredibilmente) fatica a farsi intendere e che necessita perciò di traduzioni forti e chiare. Parlano dell’era della precarietà ontologica che stiamo attraversando e che ritrova adesso accenti nuovi e nuove suggestioni.

Facilmente sfugge questo tratto effettivamente “comune”, che pure è ciò che fa la “differenza”. Combattendo per/nella propria situazione lavorativa, per abitudine, cultura, tradizione, riflesso, si tende a esporre la propria condizione professionale, il mestiere che si fa, il “ruolo”, che si ricopre all’interno della società – e che è proprio ciò che la norma socio-economica contemporanea impone e, contemporaneamente, scompagina e manda in crisi. E’ il retaggio dell’etica di un lavorismo in frantumi che si fa malinconico e reazionario: si esiste perché si lavora e si fa “quel” particolare lavoro i cui contorni non esistono più. A che cosa serve rincorrerli? La logica secondo la quale è il diritto al lavoro a sancire il diritto all’esistenza fa fatica a essere superata, tuttavia (non ci pare una notizia) tutto è già successo da un pezzo. Lavoratrice del call center, magazziniere o lavoratore della conoscenza, ciò che unisce questi soggetti è la medesima precarietà ontologica. Non è più il tempo di farci prendere dal rimpianto, dal senso della perdita e del vuoto che dà la vertigine: questa gamma così ampia di figure del lavoro e del non-lavoro è potenzialmente potente, si presta ad alleanze inedite, assai composite e larghe, per nulla corporative, dove minore è lo spazio della battaglia per il lavoro e maggiore quella per l’umano – che detta anche nuovi scopi al conflitto. Fossimo capaci di comprendere bene i toni di questa lingua, sarebbe giàrevolution.

Siamo almeno vicini a una svolta? L’elevata radicalità espressa dalla piazza del 14 dicembre ci parla esplicitamente dell’emergere di questo sentimento “comune” che comincia a non aver più freni: è il sentito della condizione precaria che esonda e con ciò travalica e tracima il senso di appartenenza a ogni vecchia categoria del mondo. Quanto meno, rotazione.

La condizione di precarietà ha assunto, nel tempo, forme nuove. Il lavoro umano, nel corso del capitalismo, è sempre stato caratterizzato da precarietà più o meno diffusa a seconda della fase congiunturale e dei rapporti di forza di volta in volta dominanti. Così è successo in forma massiccia nel capitalismo pretaylorista e così è stato, seppur in forma minore, nel capitalismo fordista. Ma, in tali periodi, si è sempre parlato di precarietà della condizione di lavoro: lo svolgimento di un lavoro prevalentemente manuale implicava in ogni caso una distinzione tra il tempo di lavoro e tempo di vita, inteso come tempo di non lavoro o tempo libero. La lotta sindacale del XIX e del XX secolo è sempre stata tesa a ridurre il tempo di lavoro a favore del tempo di non lavoro. Nella transizione dal capitalismo industriale-fordista a quello bio-cognitivo, il lavoro cognitivo e relazionale si è diffuso sino a definire le modalità principali della prestazione lavorativa. Viene meno la separazione tra uomo e la macchina che regola, organizza e disciplina il lavoro manuale. Nel momento stesso in cui il cervello e il bios (la vita) diventano parte integrante del lavoro, anche la distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro perde senso. Ecco allora che l’individualismo contrattuale, che sta alla base della precarietà giuridica del lavoro, tracima nella soggettività degli stessi individui, condiziona i loro comportamenti e si trasforma in precarietà esistenziale.

Nel bio-capitalismo cognitivo, la precarietà è, in primo luogo, soggettiva, quindiesistenziale, quindi generalizzata. È, perciò, condizione strutturale interna al nuovo rapporto tra capitale e lavoro, esito della contraddizione tra produzione sociale e individualizzazione del rapporto di lavoro, tra cooperazione sociale e gerarchia.

La condizione precaria non è oggi ancora in grado di esprimere una classe “precaria”, non esiste un processo omogeneo di presa di coscienza. Diversamente dalla condizione lavorativa manuale, per la quale era la condizione oggettiva di lavoro, in quanto “esterna” alla persona, a determinare  il livello di coscienza di sé, nel bio-capitalismo cognitivo, se la prestazione lavorativa diviene quasi totalmente interiorizzata, la presa di coscienza o è autocoscienza o non è.

Qui sta il nodo che definisce oggi la composizione sociale del lavoro contemporaneo e quindi la sua composizione politica. Qui sta la drammaticità della condizione precaria. Il 14 dicembre – anche al di là delle intenzioni degli organizzatori – rappresenta invece il primo momento di rivolta dei soggetti a tale condizione.

Nel nome della lotta alla precarietà (spesso stupidamente concepita come “abolizione del precariato”: ma quando mai, nel Novecento, si è parlato di abolizione del “proletariato”? Piuttosto si è puntato a un suo superamento…), si sono commesse nefandezze ideologiche.  Perché? Perché si è fatta fatica a indagare la complessità (moltitudine) del soggetto precario. Perché, al contempo, si è preferito considerare la condizione precaria come condizione “oggettiva” e non come espressione di una soggettività molteplice. Perché la precarietà è stata interpretata come espressione di una condizione lavorativa che si presenta immediatamente e “neutralmente” uniforme e omogenea.

Non è un caso che il termine “precario” sia fin troppo abusato di questi tempi ma ciò non toglie che  non si parli di condizione precaria. Piuttosto si parla di singoli segmenti di lavoro precario (il ricercatore universitario, l’interinale metalmeccanico, il migrante), ovvero di componenti della condizione precaria, quasi a voler a tutti i costi individuare un particolare soggetto economico, centrale, avanguardistico, che faccia da detonatore alle lotte di tutti gli altri.

Se si vuole analizzare la composizione sociale e politica del lavoro contemporaneo, il tema della precarietà deve essere assunto come paradigmatico del rapporto capitale-lavoro e non come conseguenza di una specifica (specifiche) situazione lavorativa. E’ necessario invertire l’ordine dei fattori. Non è la condizione operaia (pensando alle recenti lotte della Fiom e dei metalmeccanici), non è la condizione dei lavoratori dei call-center e, più in generale, dei servizi materiali (coop di magazzinaggio, ecc., ecc.), non è la valorizzazione delle condizioni dei lavoratori della conoscenza (dall’università ai media), ad essere precarizzata, ma è la condizione precaria a essere il paradigma che fa da cerniera a tutte queste diverse condizioni di lavoro insieme. E ciò avviene prendendo a modello il lavoro migrante e il lavoro femminile di cura e relazione.

Si tratta di una differenza sostanziale e politica. Si tratta di riconoscere che la condizione precaria, soggettivamente percepita in modo differente, viene prima dell’essere migranti, chainworker, operai, cognitari. Occorre prendere atto che la nuova divisione del lavoro va oltre la divisione settoriale e smithiana del lavoro.

A metà ottobre, a Milano si sono svolti gli Stati Generali della Precarietà: un primo tentativo di mettere al centro la condizione precaria, (/stati-generali-2010). Si tratta, infatti, di sviluppare un punto di vista precario, ovvero una proposta di ricomposizione sociale della soggettività precaria che sul tema della garanzia di reddito e della riappropriazione del comune costruisca per intero – nel modo più preciso e consapevole – la propria identità conflittuale. Un nuovo appuntamento degli Stati Generali della Precarietà è previsto per metà gennaio, sempre a Milano.

Benedetto Vecchi, sulle pagine de Il Manifesto ha fatto bene a richiamare la necessità di indire a breve gli Stati generali della Conoscenza. Essi si dovrebbero, tuttavia, collocare all’interno di un percorso che vede negli Stati Generali della Precarietà un momento ricompositivo e politicamente rilevante: è la condizione precaria che ha soprattutto bisogno di assumere sempre maggior coscienza di sé. Altrimenti, il rischio è quello di continuare a proporre punti di vista innovativi e interessanti ma frammentati e parziali, ancora una volta ingabbiati solo nella propria particolarità professionale. A proposito di lavoratori della conoscenza: più di un anno fa, sono stati redatti il “Manifesto” e la “Carta dei diritti dei lavoratori della conoscenza” (/materiale). Testi innovativi e radicali, che hanno ottenuto ampio consenso, ma si sono dimostrati incapaci di creare e sviluppare quelle sinergie necessarie a ricomporre la capacità conflittuale del precariato.

L’insorgenza del 14 dicembre a Roma esige attenzione. Per la prima volta, una nuova generazione precaria (guarda caso, non definibile nei termini della segmentazione tradizionale del lavoro) si è fatta sentire. Non facciamo finta anche noi di non capire che cosa dice.

di ANDREA FUMAGALLI e CRISTINA MORINI

Saviano, è ora di scendere dal pulpito

il Manifesto – 17 dicembre 2010

Quanto sembra remoto l’unanimismo democratico di “Vieni via con me”, con l’officiante Fazio che assemblava tutto il perbenismo nazionale – di centro, di destra e di sinistra – e proclamava, parole sue, che la trasmissione era la prima della tv post-berlusconiana! Sono passate poche settimane, ma sembrano anni. Il Cavaliere, che i conti li sa fare, ha emarginato il suo oppositore interno. I centristi, raccolte le loro sparse ed eterogenee truppe, si leccano le ferite. Di Pietro ha abbassato la cresta e magari riflette sulla selezione del personale politico dell’Idv. Il Pd tira un sospiro di sollievo, perché per un po’ le elezioni si allontanano…

E soprattutto la rivolta del 14 dicembre ha mandato in pezzi quel buonismo peloso e dolciastro che il centrismo di destra e di sinistra ha cercato di contrapporre invano a Berlusconi. Bersani sui tetti, Granata sui tetti – dopo che il primo non aveva fatto una grande opposizione per fermare il Decreto Gelmini e il secondo si disponeva a votarlo. Per il momento, il progetto di un berlusconismo senza Berlusconi, di un moderatismo costituzionale e unanimista, perde colpi. Come si è visto dalle straordinarie immagini dei palazzi del potere assediati dai manifestanti, la rocciosa realtà del conflitto ha preso il sopravvento sulla realtà illusoria e distraente delle rappresentazioni mediali e delle “battaglie” parlamentari in cui la sola posta in gioco è quale destra governerà il paese.

Il conflitto, appunto. Deve essere il capo della polizia Manganelli, pensate un po’, a ricordare che la violenza è la manifestazione visibile di un disagio sociale terribile che accomuna studenti, precari e giovani esclusi da qualsiasi speranza. Tutto il polverone sugli infiltrati, i mitici black bloc, gli autonomi redivivi, gli anarchici in trasferta rivela l’incapacità di comprendere che la manifestazione di Roma non è che l’espressione di una turbolenza profonda che non bisognerebbe emulsionare con gli stereotipi più triti. In questo senso la lettera che Saviano ha indirizzato su “La Repubblica” ai «ragazzi» del movimento è l’esempio perfetto dell’immagine irreale – a metà tra il sogno e l’esorcismo – che nella sfera separata dei media ci si vuol fare dei movimenti contemporanei.

Cento «imbecilli», come dice Saviano? Al di là del tono paternalistico della missiva («ve lo dico io che sono giovane come voi, credetemi»), colpisce l’incapacità di entrare, se non altro con l’immaginazione, nelle motivazioni di persone tagliate fuori, come centinaia di migliaia di loro coetanei, da qualsiasi progetto, non dico di società, ma di sopravvivenza anche immediata. Dove sarebbero, di grazia, caro Saviano e cari organi di stampa, i black bloc tra i manifestanti oggi scarcerati? E dove i violenti che agirebbero solo per brama di sfascio e poi, curiosa contraddizione, appena arrestati, si metterebbero a «piagnucolare e a chiamare la mamma» (ma chi glielo ha detto, a Saviano?).

I commenti pubblicati dalla stessa “Repubblica” in coda alla letterina rendono bene lo sconcerto, e in certi casi la rabbia, di tanti che magari si erano identificati nel simbolo Saviano e ora si trovano etichettati come imbecilli. Perché loro c’erano e hanno visto. E quanto all’invito ai manifestanti a fare cortei in letizia e alle forze dell’ordine a comportarsi bene, manganellando solo i cattivoni, beh, accidenti, come sarebbe bello e democratico! Peccato però che le cose non vadano mai così. Io mi ricordo bene Genova, perché c’ero e ho visto, e posso assicurare Saviano che il comportamento pacifico di decine di migliaia di dimostranti non li ha esattamente preservati dalle botte.

Questione ben più seria è che sbocco avrà questo movimento, analogamente ad altri che si diffondono in Europa, perfino nella già compassata Inghilterra. Ma il primo passo per discuterne è prenderlo sul serio, rinunciare ai luoghi comuni rassicuranti, non dar retta al pentitismo nazionale (in cui sono specializzati, magari, ex sessantottini approdati ai media), ascoltare prima di giudicare e, soprattutto, scendere dai pulpiti che stanno un po’ di spanne al di sopra del mondo reale.

Alessandro Dal Lago

Ora la precarietà vi si rivolta contro

Il manifesto – 17 dicembre 2010

Parlano i protagonisti dell’assedio alla zona rossa del 14 dicembre: “così miriamo a rompere solitudine e subordinazione” 
Nessuna «estetica della violenza», niente luddismo. A entrare in azione è stata la lucida consapevolezza che la crisi sistemica globale si sta portando via – con la demolizione del welfare state – anche la «mediazione sociale». Una generazione si scopre senza futuro, se non riuscirà a costruirlo «cooperando». E anche una barricata diventa un modo per scoprire come fare 


Si fa presto a dire «black bloc». Salvo poi scoprire i volti dei propri figli dietro le sciarpe o un sasso. Abbiamo ascoltato attentamente le ragioni di chi martedì ha scelto di forzare la «zona rossa» intorno al Palazzo. Per scoprirne la cultura politica e sondarne la ricchezza umana. Seguiteci. 
Tutti vi cercano, ma nessuno si interroga troppo. Com’è andata martedì? 

La giornata ha messo in evidenza soggetti e movimenti con cui si devono ora fare i conti. Sta avvenendo in tutta Europa. Il paragone con gli anni ’70 è una narrazione del potere, per farne una semplice ripetizione ciclica, una banalità. C’è stata una saldatura importante tra tessuti sociali sulla proposta concreta. Si è unificata la prospettiva, ci si è dati una parola comune. E ha generalizzato il tema della condizione precaria, che viene sempre ridotta all’attesa di un posto fisso che non arriverà mai; mentre accomuna ai senza casa, ai cassintegrati, ecc. 

Qual è stata la parola unificante? 

Martedì era la rivolta, la ricerca della rottura. Come singole realtà sociali, facciamo molto altro. Per esempio, siamo impegnati in battaglie locali – a volte insieme ai sindacati di base o altre realtà – in conflitti di intensità inferiore. Chi vive la crisi, di fronte alla fine della mediazione politica, comincia a «soggettivizzarsi» non solo nell’autorganizzazione, ma costruendo «pezzettini» di rivolta quotidiana. Alla fine emerge la crisi globale di un sistema bloccato. Siamo di fronte alla crisi del processo di valorizzazione: di per sé è una «crisi sistemica». Non c’è molta ideologia da aggiungere. E c’è pure una «crisi nella crisi», quella della rappresentanza politica. 

Coincidenza forse non casuale. 

No. Ma è anche una scelta necessitata. Se – come potere – dico che «a causa della crisi» non sono in grado di dare risposta ai bisogni sociali, è ovvio che «la mediazione» non la posso trovare. Io politico sono esautorato dal processo economico. Ma ogni scelta economica è politica. Ora ci troviamo in una nuova stagione, che rimette in discussione anche tattiche, progetti, apparati organizzativi. 

È cambiato «l’ambiente» per tutti. Trovare l’accordo intorno a un tavolo richiede anni, una giornata così, invece… 

Non c’è dubbio, perché alla fine si tratta anche di riconquistare un po’ di forza sociale e politica. Se vogliamo la trasformazione radicale dell’esistente dobbiamo rimettere al centro i processi di conflitto. È politicismo parlare oggi di «quale rappresentanza per i movimenti», oppure «quale dialogo con il sindacato democratico». È discutere di politica prima di accumulare forza e presenza. I processi di ristrutturazione e riorganizzazione del capitale hanno frammentato il tessuto sociale. Ricostruire è arduo. Servono molte strutture reali, per supportare la socializzazione. L’opzione sindacale in molte situazioni non è sufficiente, visto anche l’alto livello di ricattabilità sui posti di lavoro, specie nel settore privato. In Italia la metà del lavoro è al nero. Ci sono 14 milioni certificati di inattivi… 

Un po’ troppi, per esser tutti veri… 

Tra questi sicuramente si pesca molto lavoro nero o sommerso, ed anche la criminalità. Nelle nostre periferie ci sono centri urbani di spaccio a cielo aperto, lì c’è il vero «quarto settore». Ma il problema della rappresentanza andrebbe posto come rappresentanza sociale, capacità di essere recettivi e intellegibili ai tanti che sono soli e non sanno come esprimere la propria rabbia. Ora sanno che c’è qualcuno disponibile. Fino a ieri pensavano che eravamo tutti «normalizzati», che con un paio di fondi pubblici ai centri sociali e una candidatura si sistemava tutto. 

Tutto qui? 

Che da qui a «costruire un mondo nuovo» sia sufficiente bruciare due macchine, ovviamente no… Ma qual è la priorità oggi? Riportare i processi di conflitto al centro, accumulare forze per il cambiamento… Anche facendo le barricate costruiamo un mondo nuovo, perché mentre le fai scopri «con chi» puoi fare un altro mondo. Tutto questo riporta al vecchio tema: «senz’acqua, la papera non galleggia». 

Martedì si vedeva chiaro: «solo tutti insieme facciamo paura». 

E la piazza ha «tenuto» oltre ogni attesa. Ora c’è da capire quali prospettive si dà questo movimento. Ma martedì tanti «pischelletti» hanno capito che c’è una cooperazione nella lotta, e la ricomposizione è possibile. Il movimento non è «nostro», è libero di scegliere. 

Una ricomposizione concettuale, dopo 20 anni di «impotenza percepita»… 

È stata davvero una giornata importante, per questo. Ora bisogna lasciare spazio affinché si esprima su altri obiettivi. Nei mesi scorsi è stata importante la mobilitazione degli studenti medi. E si è visto. Lo spezzone universitario ci stava dentro con una consapevolezza maggiore, ma con articolazioni meno sociali, più «equilibrismi». Ma è nella frammentazione sociale che c’è più necessità di un passaggio politico. Bisogna dare parola e rappresentanza sociale, quindi anche politica, a un precariato diffuso che oggi non ha altri spazi se non il proprio stesso «agire». C’è necessità di «candidarsi nella società» – non alle elezioni – essere credibili per le cose che fai e che dici tutti i giorni, al di là della sparata di martedì. Si tratta di costruire «complicità» nelle relazioni. Un piccolo obiettivo contro l’isolamento e la frammentarietà, ma anche contro la crisi della politica. Ci sono partiti di massa che, per fare un volantinaggio, faticano a mettere insieme 15 persone. E ci sono invece collettivi di base, movimenti autorganizzati, che hanno una capacità di militanza e adesione che va manifestata. 

Come la spiegate questa differenza? 

Anzitutto con l’accumulazione di forza e la consapevolezza delle parole d’ordine radicali che stiamo mettendo in campo. Se c’è una crisi sistemica, è sistemica. È inutile cercare il modo di cogestirla. L’idea di «governare la crisi» si scontrerà con gli equilibri della globalizzazione. Cosa farà Vendola domani, quando vorrà introdurre una riforma sociale radicale? Potrà sforare il patto di stabilità? Sarà disposto a farlo? 

Da gennaio la politica di bilancio sarà fatta a Bruxelles. 

Crediamo che la scelta sarà quella di «dichiarar guerra» ai poveracci. E’ ovvio che chi detiene il potere ha dei privilegi e li vuol preservare. Non ha più strumenti di mediazione, il welfare state, e dichiara guerra. Ma a questo punto è finita anche un’altra ipotesi: quella della «simulazione del conflitto». Oggi chi «simula» scherza col fuoco. Se è finita la mediazione politica, è finita anche la simulazione. L’«elemento simbolico» ha un peso forse ancora più forte. Il blindato che va a fuoco è un simbolo, non è che sparisce la guardia di finanza. Ma va a fuoco sul serio. 

La repressione. Cosa vi aspettate? 

Staremo a vedere. Per oggi si tratta di avere la capacità di dare una risposta unitaria. È comprensibile, conseguente, che ci sia una reazione dura. Chi ha i privilegi – ricchi, padroni, governanti – o chi voleva solo scalzare Berlusconi, presentandoci poi il conto dei sacrifici, del «governo di transizione neutrale», della gestione europea e di Marchionne… «non ci ama». Contro questa prospettiva abbiamo detto «que se vayan todos», andate tutti a casa. Perché non ci sono alternative, in questo «palazzo» immobilizzato tra lobby di interessi trasversali e governance della globalizzazione. Può darsi che finora siamo stati una generazione poco coraggiosa… 

Ma è stata la vostra Valle Giulia… 

È l’apertura di una nuova stagione. Tutta la cordata che arriva fino a Vendola dovrà prendere prima o poi delle decisioni. Abbiamo visto un silenzio imbarazzato davanti a questa giornata. E pensiamo sia sbagliato, perché bisogna essere conseguenti con le cose che si dicono. Si parla di sofferenza, precarietà, rabbia… Ma qualsiasi governo verrà dopo, o mette in crisi il sistema di accumulazione e la governance, oppure avrà le mani legate. E quindi l’unica cosa che rimane ai democratici è l’opinione. Ma, almeno quella, falla! 

Qualcosa di molto distante dall’immagine di «quelli che vogliono solo sfasciare tutto»… 

Si può anche non negare questa cosa: sì, volevamo sfasciare tutto. Ma eravamo tanti e volevamo prendere parola. Quando lo fai, non sei «simpatico». 

Era un corteo di gente che finalmente parlava: «mafiosi», «venduti»… 

Senza fischietti e palloncini… È il frutto di pratiche di organizzazione sociale, fuori dai campi già conosciuti, dalla «politica» dei partiti, in parte anche dai sindacati. Per esempio, lo spazio di attivazione dentro un laboratorio sociale, o la riaggregazione della precarietà in un determinato territorio, rimettendo al centro la «complicità» tra persone. Li aggreghi costruendo una tua «narrazione», che dice «siamo indipendenti, aspiriamo a dare parola a chi non ce l’ha». 

Anche attraverso una birra scambiata, una squadra di calcio, o la «cospirazione» tra precari che si rivolgono a un avvocato per far causa all’azienda e sfilarle almeno un po’ di soldi. 

Tanto, da precario, non hai il posto… 

Alcuni dicono cash and crash. Un modo nuovo di «assumersi» in pianta stabile come precari e sopravvivere. Mostrano la corda tutte le forme di «crisi pilotata». La Cgil ha reso noto che le ore di cig concessa ha superato il miliardo. Ci sono oggi nuove frontiere oltre lo sfruttamento diretto della forza lavoro. Anche se, secondo noi, rimane sempre questo il centro della contraddizione. 

Nonostante la delocalizzazione vada riducendo la base produttiva… 

Ci sono anche le nuove forme del lavoro cognitivo, o del lavorare nel tempo di «non lavoro». Ma il tema è sempre quello della produzione, della vendita della forzalavoro; non è che si scappa. Rimaniamo sempre lì, tra valore d’uso e valore di scambio… Si tratta di costruire un’azione politica realmente alternativa, a cominciare da: cosa si produce, per chi, come lo si fa, in quale equilibrio e sostenibilità. Bisogna ripartire dai bisogni. In base a quelli sai anche calibrare una nuova filiera produttiva, cosa effettivamente è utile produrre. Magari scopriremo che non serve fare tante automobili, ma nemmeno ci dobbiamo tutti mettere a lavorare nel fotovoltaico. Ma torniamo al discorso di prima: o accetti la governance o la rompi. Per fare questo ti devi attrezzare, organizzare gente, accumulare forza; che è oggi il problema numero uno. 

Hammett


La rabbia di Roma viene da lontano

Il movimento che si è sviluppato in queste settimane e che ha trovato nelle manifestazioni di questi giorni la sua espressione estetica (dal salire sui tetti, sulle gru e sulle torri, dall´occupazione delle piazze, sino ai riots del 14 dicembre 2010) è un movimento variegato e scomposto. Come è la precarietà. E non può essere altrimenti. È la manifestazione del disagio della condizione di precarietà, ma senza che la “soggettività precaria” venga mai nominata e posta al centro dell´azione.

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Caro Saviano (senza rancore)

LetterwritingIn risposta alla lettera di Saviano apparsa su Repubblica.it il il 16 dicembre 2010


Caro saviano,

tu dici: “CHI HA LANCIATO un sasso alla manifestazione di Roma lo ha lanciato contro i movimenti di donne e uomini che erano in piazza”.
noi diciamo: chi ha lanciato un sasso alla manifestazione di Roma E´ il movimento di donne e uomini che era in piazza.

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