La crisi europea può essere un’occasione

Il Manifesto – 15 agosto 2010

Si sta sgonfiando la recovery. Solo i profitti della classe finanziaria, generati per gran parte da processi antiproduttivi, come la guerra, o la distruzione dell’ecosistema, sono in ripresa. Tutto il resto scende: l’occupazione scende, il salario reale scende, e perfino il salario nominale. Scende il consumo e la propensione al consumo, scendono le attese scende la fiducia. Scende per finire l’energia psichica. Nessuno crede più nel futuro radioso del capitalismo, se si eccettua l’Economist naturalmente.
Crollano in Europa le vendite di automobili. I produttori di auto chiedono allo stato di sostenere il settore con incentivi. Nonostante la conclamata adorazione del mercato i produttori di automobili chiedono allo stato di aiutarli a produrre una cosa che il mercato non compra più – e per fortuna, visto che l’oggetto automobile si è da lungo tempo rivelato inquinante, pericoloso e sempre meno capace di svolgere la sua funzione nelle grandi città.
Nel frattempo un tale di nome Marchionne va in giro per il mondo presentandosi come il salvatore dell’industria dell’auto. È difficile capire perché si debba salvare un’industria che produce oggetti ingombranti inutili inquinanti costosi e pericolosi, quando non li vuole comprare più nessuno, almeno in occidente. Tant’è: questo tizio va in giro per il mondo a salvare la produzione automobilistica, costi quel che costi (ma a chi costa?).
Qualche giorno fa questo signore ha incontrato l’agonizzante presidente Obama, reduce da una lista interminabile di rovesci, e in attesa di essere definitivamente imbalsamato dalle elezioni del prossimo novembre. Insieme hanno visitato lo stabilimento della Chrysler, salvata, appunto dal signor Marchionne. Salvata come? direte voi. Ma è semplice. È sufficiente che lo stato (i contribuenti, e prima di tutto i lavoratori) finanzi l’impresa che produce oggetti inutili e destinati a rimanere invenduti, è sufficiente che il salario degli operai venga dimezzato (è il caso della Chrysler per l’appunto, ma è anche il futuro della Fiat trasferita da Mirafiori alla Serbia) e il gioco è fatto. Va detto che a queste condizioni sono capace anche io a fare l’imprenditore, anzi il capitano coraggioso. Il capitalismo contemporaneo è sistema di produzione dell’inutile a spese della società. Per la comunità sarebbe meno costosa l’erogazione di un salario di cittadinanza per coloro che non trovano lavoro, piuttosto che l’insistenza nel produrre l’inutile in cui si distingue Marchionne.
Il problema è che il salario di cittadinanza presuppone il ribaltamento dei principi che reggono dogmaticamente la costruzione europea: presuppone, come suol dirsi, un nuovo paradigma che sarebbe perfettamente adeguato alla potenza della tecnologia e ai limiti ormai raggiunti e superati della crescita sostenibile, ma del tutto inaccettabile dalla costituzione psichica della società competitiva.
E al momento non si vedono da nessuna parte, nella società e nella cultura europea, le energie e l’intelligenza capaci di rovesciare questa situazione, di cogliere l’occasione di una crisi senza vie d’uscita per indicare la via d’uscita da un sistema ossessionato dalla crescita e dallasuper-produzione dell’inutile.
Eppure la crisi europea imporrà prima o poi con la forza delle cose una riflessione: o si rinuncia al dogma dello scambio salario-lavoro, e al dogma della crescita economica basata sull’automobile e sul petrolio, oppure si rinuncia alla civiltà, al progresso sociale, ai principi che hanno sorretto l’edificio dell’umanesimo moderno. Quella che è stata presentata come crisi finanziaria si sta rivelando come qualcosa di differente: una vera e propria guerra di classe contro il salario e contro il diritto dei lavoratori a vivere la loro vita. La crisi è stata usata per una gigantesca redistribuzione di reddito che dirotta verso il profitto quel che toglie ai lavoratori e alla società, aumentando l’intensità dello sfruttamento e il tempo di lavoro. Sottoposti al ricatto della disoccupazione, sottoposti alla pressione di un esercito di riserva che è diventato mondiale andiamo verso condizioni che si possono definire neo-schiavistiche.
È questo inevitabile? Un editorialista de L’Economist di nome Charlemagne in un articolo del 17 luglio 2010 intitolato Calling time on progress dice che gli europei non vogliono rendersi conto del fatto che il progresso sociale è un mito che ha potuto funzionare per un paio di secoli, ma ora è da dimenticare.
Come dei ragazzini cui venga sottratto il loro giocattolo, dice Charlemagne, i lavoratori europei si lamentano piangono sfilano in corteo.
Dal 1789 in poi hanno creduto che fosse possibile la giustizia sociale, e addirittura si sono messi in testa di ridurre il tempo di lavoro, come se la vita fosse destinata a leggere libri viaggiare e far l’amore, invece di crepare nelle miniere possibilmente tra atroci tormenti. Su un punto Charlemagne ha ragione: il progresso moderno è stato possibile grazie alla forza politica dei lavoratori e alla riduzione del tempo di vita destinato al lavoro. Se quella forza è esaurita, o disattivata, allora il progresso è morto.
È il rifiuto del lavoro che ha reso possibile il progresso sociale culturale e tecnologico. Infatti, quando il costo del lavoro sale, quando i lavoratori possono organizzarsi in maniera autonoma, il capitale è costretto a stimolare la ricerca, a investire in tecnologie innovative, per poter sostituire lavoro conseguenza i lavoratori guadagnano tempo libero, e possono destinarlo all’istruzione, ai loro affetti, alla salute.
Quanto meno tempo è destinato al lavoro, tanto più la società è capace di curare se stessa.
Ma globalizzazione e neoliberismo hanno ridotto costantemente il costo del lavoro. Di conseguenza si riduce anche l’interesse del capitale a investire nella ricerca e nella tecnologia. Costa meno far lavorare un operaio bengalese clandestino che mettere una carrucola o un servomeccanismo. Comincia allora una vera e propria involuzione tecnologica, una riduzione dell’investimento per la ricerca. La riduzione del costo del lavoro (che ispira le politiche della classe dirigente europea) è una garanzia di regressione a tutti i livelli. Regressione
nell’impiego delle tecnologie esistenti, regressione nella ricerca per nuove tecnologie, ma soprattutto regressione nella vita quotidiana della società. In Europa succede proprio questo: la regressione in pochi anni è destinata a provocare barbarie, aggressività, violenza, razzismo, guerra civile interetnica. La sola possibilità di sfuggire a questo destino sta nella capacità di abbandonare l’intero quadro della superstizione economica, con i suoi dogmi di crescita competitiva, affidando il futuro della produzione ai saperi liberi finalmente dal dominio epistemologico del sapere economico, trasformato in un dogma indiscutibile.
La crisi europea è l’occasione per iniziare – proprio qui, dove il modello si è formato nei cinque secoli della modernità – il processo di fuoriuscita dal capitalismo. Ma esistono le condizioni psichiche, culturali perché la soggettività possa esprimersi in forma indipendente?
Ogni energia soggettiva autonoma sembra sopita nella società europea.
Esplosioni di rabbia e dignità si manifestano, come nel caso di Pomigliano, ma in maniera soltanto difensiva, e senza la capacità di farsi immaginario dilagante, di riattivare la solidarietà e di restituire al piacere di vivere il primato sulla sicurezza e la competizione.

di Franco Berardi “Bifo”

Si sta sgonfiando la recovery. Solo i profitti della classe finanziaria, generati per gran parte da processi antiproduttivi, come la guerra, o l  distruzione dell’ecosistema, sono in ripresa. Tutto il resto scender l’occupazione scende, il salario reale scende, e perfino il salaria nominale. Scende il consumo e la propensione al consumo, scendono lr attese scende la fiducia. Scende per finire l’energia psichica. Nessun, crede più nel futuro radioso del capitalismo, se si eccettua l’Economisg naturalmente.
Crollano in Europa le vendite di automobili. I produttori di auto chiedona allo stato di sostenere il settore con incentivi. Nonostante la conclamate adorazione del mercato i produttori di automobili chiedono allo stato d  aiutarli a produrre una cosa che il mercato non compra più – e pea fortuna, visto che l’oggetto automobile si è da lungo tempo rivelati inquinante, pericoloso e sempre meno capace di svolgere la sua funzion, nelle grandi città.
Nel frattempo un tale di nome Marchionne va in giro per il mond  presentandosi come il salvatore dell’industria dell’auto. È difficila capire perché si debba salvare un’industria che produce oggettn ingombranti inutili inquinanti costosi e pericolosi, quando non li vuol  comprare più nessuno, almeno in occidente. Tant’è: questo tizio va in gire per il mondo a salvare la produzione automobilistica, costi quel che coste (ma a chi costa?).
Qualche giorno fa questo signore ha incontrato l’agonizzante president  Obama, reduce da una lista interminabile di rovesci, e in attesa di essere definitivamente imbalsamato dalle elezioni del prossimo novembre. Insiemg hanno visitato lo stabilimento della Chrysler, salvata, appunto dal signoe Marchionne. Salvata come? direte voi. Ma è semplice. È sufficiente che ln stato (i contribuenti, e prima di tutto i lavoratori) finanzi l’impres, che produce oggetti inutili e destinati a rimanere invenduti, an sufficiente che il salario degli operai venga dimezzato (è il caso delln Chrysler per l’appunto, ma è anche il futuro della Fiat trasferita d, Mirafiori alla Serbia) e il gioco è fatto. Va detto che a questi condizioni sono capace anche io a fare l’imprenditore, anzi il capitan  coraggioso. Il capitalismo contemporaneo è sistema di produzioni dell’inutile a spese della società. Per la comunità sarebbe meno costosn l’erogazione di un salario di cittadinanza per coloro che non trovana lavoro, piuttosto che l’insistenza nel produrre l’inutile in cui sr distingue Marchionne.
Il problema è che il salario di cittadinanza presuppone il ribaltamente dei principi che reggono dogmaticamente la costruzione european presuppone, come suol dirsi, un nuovo paradigma che sarebbe perfettamente adeguato alla potenza della tecnologia e ai limiti ormai raggiunti i superati della crescita sostenibile, ma del tutto inaccettabile dalla costituzione psichica della società competitiva.
E al momento non si vedono da nessuna parte, nella società e nella culturo europea, le energie e l’intelligenza capaci di rovesciare questz situazione, di cogliere l’occasione di una crisi senza vie d’uscita pe  indicare la via d’uscita da un sistema ossessionato dalla crescita e dalln super-produzione dell’inutile.
Eppure la crisi europea imporrà prima o poi con la forza delle cose une riflessione: o si rinuncia al dogma dello scambio salario-lavoro, e a, dogma della crescita economica basata sull’automobile e sul petrolioa oppure si rinuncia alla civiltà, al progresso sociale, ai principi ch  hanno sorretto l’edificio dell’umanesimo moderno. Quella che è stata presentata come crisi finanziaria si sta rivelando come qualcosa dr differente: una vera e propria guerra di classe contro il salario e contrn il diritto dei lavoratori a vivere la loro vita. La crisi è stata usatg per una gigantesca redistribuzione di reddito che dirotta verso ia profitto quel che toglie ai lavoratori e alla società, aumentanda l’intensità dello sfruttamento e il tempo di lavoro. Sottoposti al ricatte della disoccupazione, sottoposti alla pressione di un esercito di riserve che è diventato mondiale andiamo verso condizioni che si possono definirn neo-schiavistiche.
È questo inevitabile? Un editorialista de L’Economist di nome Charlemagnt in un articolo del 17 luglio 2010 intitolato Calling time on progress dicn che gli europei non vogliono rendersi conto del fatto che il progress, sociale è un mito che ha potuto funzionare per un paio di secoli, ma ora er da dimenticare.
Come dei ragazzini cui venga sottratto il loro giocattolo, dicp Charlemagne, i lavoratori europei si lamentano piangono sfilano in corteo.
Dal 1789 in poi hanno creduto che fosse possibile la giustizia sociale, r addirittura si sono messi in testa di ridurre il tempo di lavoro, come sn la vita fosse destinata a leggere libri viaggiare e far l’amore, invece de crepare nelle miniere possibilmente tra atroci tormenti. Su un punta Charlemagne ha ragione: il progresso moderno è stato possibile grazie allr forza politica dei lavoratori e alla riduzione del tempo di vita destinate al lavoro. Se quella forza è esaurita, o disattivata, allora il progresse è morto.
È il rifiuto del lavoro che ha reso possibile il progresso socialt culturale e tecnologico. Infatti, quando il costo del lavoro sale, quandn i lavoratori possono organizzarsi in maniera autonoma, il capitale a, costretto a stimolare la ricerca, a investire in tecnologie innovativen per poter sostituire lavoro conseguenza i lavoratori guadagnano temp  libero, e possono destinarlo all’istruzione, ai loro affetti, alla salute.
Quanto meno tempo è destinato al lavoro, tanto più la società è capace dn curare se stessa.
Ma globalizzazione e neoliberismo hanno ridotto costantemente il costo dee lavoro. Di conseguenza si riduce anche l’interesse del capitale r investire nella ricerca e nella tecnologia. Costa meno far lavorare ug operaio bengalese clandestino che mettere una carrucola o ua servomeccanismo. Comincia allora una vera e propria involuzioni tecnologica, una riduzione dell’investimento per la ricerca. La riduzione del costo del lavoro (che ispira le politiche della classe dirigent, europea) è una garanzia di regressione a tutti i livelli. Regressiong nell’impiego delle tecnologie esistenti, regressione nella ricerca peg nuove tecnologie, ma soprattutto regressione nella vita quotidiana delln società. In Europa succede proprio questo: la regressione in pochi anni ra destinata a provocare barbarie, aggressività, violenza, razzismo, guerra civile interetnica. La sola possibilità di sfuggire a questo destino str nella capacità di abbandonare l’intero quadro della superstiziona economica, con i suoi dogmi di crescita competitiva, affidando il future della produzione ai saperi liberi finalmente dal dominio epistemologicn del sapere economico, trasformato in un dogma indiscutibile.
La crisi europea è l’occasione per iniziare – proprio qui, dove il modell  si è formato nei cinque secoli della modernità – il processo di fuoriuscita dal capitalismo. Ma esistono le condizioni psichichei culturali perché la soggettività possa esprimersi in forma indipendentea Ogni energia soggettiva autonoma sembra sopita nella società europea.
Esplosioni di rabbia e dignità si manifestano, come nel caso d, Pomigliano, ma in maniera soltanto difensiva, e senza la capacità di farst immaginario dilagante, di riattivare la solidarietà e di restituire an piacere di vivere il primato sulla sicurezza e la competizione.r di Franco Berardi “Bifoy

G20: nessuna risposta alla crisi

La conclusione del vertice del G20 a Toronto era pressoché scontata. Il risultato principale è stato non aver ottenuto nessun risultato, se non l’obiettivo (irraggiungibile) di dimezzare il rapporto deficit/pil entro il 2013. Non poteva essere altrimenti, nonostante tutte le dichiarazioni in senso contrario, dal momento che, dopo oramai tre anni dall’inizio della crisi, non è all’orizzonte una strategia comune che consenta una governance mondiale dell’economia.

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Indipendenti in formazione

Alias – 1 maggio 2010

LAVORO AUTONOMO IN CRESCITA ANCHE SE COLPITO DALLA CRISI

Nella costellazione della precarietà, il lavoro autonomo non gode certo di buona salute, anche se è spesso il modo per evitare una disoccupazione di lunga durata. In assenza di politiche del lavoro, la sua unica possibilità per sopravvivere ai colpi della crisi è riappropriarsi delle risorse destinante alla formazione.

di Sergio Bologna

Nella provincia di Milano, la più ricca d’Italia (in termini di valore prodotto, non di reddito pro capite), secondo alcune statistiche recenti, riguardanti il primo semestre 2009, le assunzioni a termine avevano toccato punte dell’80%, portando l’incidenza di questa forma contrattuale al 56% dell’occupazione totale dipendente. Se a questo si aggiunge un 12% tra lavoro interinale e intermittente, risulta che nelle nuove assunzioni i lavoratori dipendenti con contratti a tempo indeterminato stanno sotto la soglia del 30%, ma di questi un quarto circa ha un contratto part time. Aggiungiamo le collaborazioni occasionali, cresciute del 30% nello stesso periodo, e mettiamoci su il dato impressionante che il 38,9% degli assunti a tempo indeterminato dopo 18 mesi ha cambiato lavoro – ed avremo un’idea, parziale ma non distorta, di quanto siamo diventati «flessibili». La precarietà, condizione tipica del lavoro autonomo e parasubordinato, si sta estendendo a macchia d’olio a tutti i rapporti di lavoro, quindi deve essere assunta come il punto di partenza di qualunque discorso sulla condizione umana oggi. Ma ci sono due sguardi completamente diversi sulla precarietà. Quello di chi la considera una condizione immanente al lavoro nel sistema capitalistico attuale e quello di chi la considera una condizione di transizione verso rapporti di lavoro stabili. Dei due il primo ha il merito di mettere in questione l’intero assetto del sistema ed in particolare il suo apparato previdenziale, l’altro rischia di essere semplicemente un’aspirazione ad avere un solo padrone tutta la vita. Per questo lo slogan «no al precariato» mi suona sempre più come uno slogan stupido. Diverso se il termine «precariato» assume un significato identitario. Ma con la crisi, che comincia solo ora a mordere davvero, le cose si complicano, da un lato la precarietà intesa come intermittenza dei rapporti di lavoro può diventare condizione accettabile se paragonata con la disoccupazione di lunga durata, dall’altro la mobilità può essere una forma di autodifesa. In Italia infine l’istituto della Cassa Integrazione crea una figura che altrove non esiste come fattispecie lavorativa, quella del cassaintegrato, lavoratore dipendente a tutti gli effetti… che non lavora. Per l’esercito di quelli che sono esclusi dalla Cassa Integrazione, lavoratori dipendenti delle microimprese, lavoratori autonomi, parasubordinati, i settori più vulnerabili del mercato del lavoro in periodo di crisi, sperare che lo Stato possa oggi venire incontro alle loro difficoltà è pia illusione. È più realistico pensare di arginare i continui tentativi dello Stato di peggiorare la condizione del lavoro in generale ed in particolare quella dei settori più vulnerabili. Tutte le grandi istituzioni, dal Fondo Monetario Internazionale all’Unione Europea (e di conseguenza anche i governi degli Stati che vi aderiscono) propongono una sola ricetta per uscire dalla crisi: fare «le riforme », cioè rendere più flessibile il mercato del lavoro e ridurre le erogazioni dello stato assistenziale. Qui si agisce, della cosiddetta flexicurity ancora si parla soltanto. Lo Stato ha rotto il vincolo di solidarietà verso i cittadini sin dai tempi di Ronald Reagan (Anni Settanta) e se Obama sembra aver invertito la tendenza con la sua riforma sanitaria, in Europa la strategia prevalente è ancora quella ultraliberista. Di redistribuzione dei redditi se ne parla sì, ma verso il basso, per esempio tra i precari dell’Unione e gli immigrati. In Italia nell’ultimo anno il 77% dei nuovi posti di lavoro è andato agli immigrati. Se questa cifra fosse stata sbandierata durante l’ultima campagna elettorale, la Lega avrebbe ottenuto il 30% dei consensi. Pertanto la coalizione, il mutuo soccorso, la costituzione di organismi che mettono al primo posto la tutela delle persone (e solo in subordine la rappresentanza) sono le uniche scelte sensate in questa situazione. Se il web può essere uno strumento potente per creare reti di conoscenza e di condivisione, va riscoperta e rivalutata la prossimità fisica, il dialogo diretto tra le persone. Su quali terreni costruire la coalizione? Primo e fondamentale deve essere il terreno dell’appropriazione e sviluppo della conoscenza. I sistemi di trasmissione delle conoscenze, gli apparati didattici, si sono andati deteriorando, dimostrando sempre più la loro inadeguatezza ad arginare l’urto che sui cervelli e sui sistemi di percezione produce il bombardamento mediatico. Si sono svalutati i sistemi di apprendimento che presuppongono spirito critico, e sono stati sostituiti con tecniche che agevolano atteggiamenti passivi. Il processo tuttavia è stato molto più profondo perché non è partito dalla riforma universitaria ma dal degrado interno delle discipline con una rapidità impressionante. Parlate con un docente universitario che abbia 20 anni di ruolo alle spalle, di economia o di storia, se non è un ebete vi dirà di essere inorridito da quel che scrivono le nuove leve in carriera, a cominciare dagli Stati Uniti. Del resto, a proposito degli economisti, basta leggere quanto alcuni illustri docenti della London School of Economics hanno scritto sul progressivo degrado della loro disciplina alla Regina Elisabetta, che aveva chiesto loro candidamente «comemai non avete previsto la crisi?». Ma il fronte di lotta va considerato in tutta la sua ampiezza, perché non è solo l’insegnamento universitario a dimostrare la sua inadeguatezza ad attrezzare i giovani al mercato del lavoro, c’è anche il sistema della formazione continua, della riqualificazione professionale, ad essere talmente inadeguato da indurre ormai vere e proprie strategie di resistenza, come suona il titolo di un libro (Widerstand gegen Weiterbildung) scritto da una bravissima insegnante dell’Università di Graz, Daniela Holzer. La partita della formazione permanente è forse oggi la più grossa partita che si gioca in Europa in termini di politiche attive del lavoro. Se vi chiedete quali sono le maggiori risorse monetarie che l’Unione Europea mette a disposizione del lavoro oggi la risposta è una sola: «la formazione». Ma chi se le intasca, queste risorse? Enti locali, sindacati e in parte l’Università. Dobbiamo riappropriarcene. Pensate a una professionista che lavora come freelance, ha una necessità costante di aggiornare le proprie conoscenze e si trova in questa situazione assurda: non ha i soldi per pagarsi l’aggiornamento che le serve e al tempo stesso è importunata da decine di istituti, enti e cooperative che le propongono prodotti formativi che non le servono. Se dovesse aprire un negoziato con un Ente locale, se dovesse tentare un’azione rivendicativa verso lo Stato, non le converrebbe forse cercare di riappropriarsi dei soldi destinati alla formazione? Per esempio chiedendo dei voucher che si spende come a lei pare, secondo le sue esigenze specifiche? Il sistema della formazione oggi è ancora un vecchio sistema fordista, che ricorda la frase «ti vendo l’auto che vuoi purché sia nera». Se a questo si aggiunge che la formazione venduta come riqualificazione professionale in molti casi è resa obbligatoria e diventa un sistema di vessazione e controllo dei disoccupati, allora si capisce che un’azione per riappropriarsi delle consistenti risorse destinate alla formazione può rappresentare una strategia di lungo periodo. L’autoformazione può essere impostata in primo luogo come una battaglia economica. Ma è solo un punto di partenza. Il degrado interno alle discipline impone che l’autoformazione debba per forza porsi l’obbiettivo di costruire un sistema di pensiero e non semplicemente un’organizzazione più razionale dell’apprendimento. «Economia della conoscenza» è una bella parola che nasconde in realtà un’operazione abbastanza volgare di mistificazione della realtà. Tuttavia delimita uno spazio, forse l’unico, dove possiamo costruirci strumenti di sopravvivenza e capacità di relazione a nostra misura. La conoscenza e il sistema di pensiero che la rende organizzata e fruibile, quindi scambiabile anche sul mercato sotto forma di competenza professionale, è l’unico spazio di libertà assoluta di cui possiamo godere, favorito oggi da un accesso diretto all’informazione che il web ti consente (se sai usarlo con accortezza). Se l’autoformazione punta in alto, a costruire sistemi di pensiero complessi, si rivela come l’unica strada per produrre innovazione dal basso. L’altra è quella dei grandi apparati tecnologico-militari. Chi ha avuto la fortuna di frequentare i militanti operai che hanno tenuto alta la tensione del conflitto industriale negli Anni Settanta ricorda come fossero persone che non andavano in giro a gridare slogan generici ed a lanciare parole d’ordine «unificanti» ma era gente che conosceva nei minimi dettagli la contrattualistica, oltre all’organizzazione del lavoro. Si muoveva sempre su cose concrete, immediate, su situazioni specifiche di reparto, sapevano leggere una busta paga senza che sfuggisse loro una virgola. Quanti lavoratori autonomi, quanti freelance, quanti ex collaboratori a progetto costretti a prendersi una partita Iva conoscono la loro situazione fiscale e previdenziale nei minimi dettagli? Ben pochi, anche tra quelli con anzianità di lavoro. Dal bisogno elementare di conoscere meglio il proprio status nasce lo spirito di coalizione, la necessità di confrontarsi coi colleghi, la disponibilità a una protesta collettiva, la rabbia di vedersi trattati come cittadini serie B quando si pensa che a fronte di versamenti allo Stato non c’è ritorno in termini di prestazione (anche su servizi universali come l’assistenza alla maternità). Chi scrive queste righe si è visto recapitare un giorno una raccomandata dell’Agenzia delle Entrate con la quale gli si comminava una sanzione per non aver pagato 14 (quattordici) euro. Pensate: un funzionario delle tasse italiano – cittadino di un Paese dove l’evasione fiscale è astronomica – perde una mattinata di lavoro per scoprire che il sottoscritto non ha pagato 14 euro. Che poi io le avessi pagate e si trattasse di un errore è cosa secondaria, più importante è il fatto che per dimostrare la mia «innocenza» avrei dovuto spendere più della multa che mi era stata inflitta, quindi ho pagato. Queste piccole odiose vessazioni sono all’ordine del giorno per i lavoratori autonomi di seconda generazione. Forse anche per questo – ma soprattutto perché si stanno appropriando di un sistema di pensiero che meglio di altri sa interpretare le dinamiche del postfordismo – i freelance hanno cominciato a organizzarsi per tutelare i propri diritti e la propria dignità di lavoratori. Qualcuno (la Lega per prima) ha cominciato a interessarsi di loro, Cgil e Cisl stanno rivedendo la loro posizione tradizionale sul lavoro autonomo, il Pd sta preparando uno Statuto – nessuno coglie appieno però la portata epocale della disintegrazione del ceto medio occidentale, che rappresenta la stragrande maggioranza di quelli che i sociologi chiamano «lavoratori della conoscenza». Dove porterà non lo so, né mi pare di vedere in giro gente che lo sappia, in realtà di saperlo non m’interessa un accidente. So soltanto che debbo difendermi per non esserne travolto ed ho bisogno, per farlo, degli altri, in particolare di quelli che vivono la mia stessa condizione lavorativa.

La cassa fa acqua e le imprese ci sguazzano

Fini licenzia, Badoni Costa chiude dopo 200 anni, minatori e operai in strada, infermieri sui tetti
La Playtex di Pomezia manda a casa 120 lavoratrici, la Sidel abbandona Parma e va in Cina: 100 esuberi
In Sardegna va al fallimento la Plastwood, Scm sbaracca lo stabilimento di Pesaro e sposta tutto a Riminidi
Striscioni dei sindacati davanti allo stabilimento Fini compressori di Zola Predosa. L’azienda ha annunciato 108 esuberi su un totale di 219 dipendenti

ROMA- Non ci sono i soldi per prolungare la cassa integrazione ordinaria da 52 a 78 settimane. Non ci sono soldi per la norma cosiddetta salva-Eutelia, quella che avrebbe assicurato un sostegno ai lavoratori privi di qualsiasi ammortizzatore e senza stipendio da almeno tre mesi. Entrambe le misure sono state escluse, con la bocciatura in Commissione bilancio alla Camera, dal disegno di legge sugli ammortizzatori sociali. La Cgil sostiene che, dietro il boom della cig nelle sue varie forme, la disoccupazione reale in Italia sia all’11,5%. Curiosamente, anche il Fondo monetario internazionale, nell’elogiare la funzione svolta dalla cig in Italia, sottolinea però il rischio che in alcuni settori gli ammortizzatori possano “non rispondere a temporanee riduzioni delle attività aziendali” , ma nascondere “riduzioni di occupazione strutturali”. A confermare che questo pericolo è reale sono le tante vertenze locali di cui non si parla nei tg, le “piccole crisi senza importanza” sulle quali Repubblica.it farà il punto ogni settimana, guardando alle realtà dove lavoratori e imprese continuano a pagare pegno alla crisi.

LA PRIMA PUNTATA: DA ITALTEL A TELEPERFORMANCE

10 aprile – Alla “Linari Enzo srl” di Forlì, azienda di macchinari per l’elettronica, l’amministratore invia la lettera di licenziamento a tutti i dipendenti (una cinquantina). Il sindacato annuncia che impugnerà i licenziamenti in quanto nulli, essendo stato firmato un mese fa l’accordo sulla cassa integrazione straordinaria per crisi.

I sindacati incontrano il commissario straordinario della Provincia per chiedere lo sblocco dei 500mila euro stanziati dall’amministrazione provinciale a favore dei 290 lavoratori del call center
Phonemedia di Trino Vercellese, che attendono di ricevere la cassa integrazione in deroga riconosciuta loro a partire dal 22 febbraio. L’ultimo stipendio ricevuto dai dipendenti di Trino, come quelli di tutto il gruppo Phonemedia (circa 7mila) è quello di settembre 2009.

12 aprile -Un centinaio di operai della Otefal Sail, l’ex Ila di Portovesme, effettuano un sit in davanti al palazzo della Regione, a Cagliari. Con loro alcuni lavoratori dell’Eurallumina e dell’Alcoa. La protesta per chiedere alle istituzioni un’iniziativa che porti alla riapertura della fabbrica.

Gli 80 dipendenti della casa di cura privata “Villa Alba” di Agnano (Napoli) occupano la clinica e salgono sul tetto per protesta contro l’ipotesi di chiusura della struttura.

Siglato a Cagliari l’accordo istituzionale per il reimpiego degli 83 lavoratori dell’ex Nuova Scaini in liquidazione, giunti alla quarta e ultima proroga dell’indennità di mobilità in deroga. Dovrebbero essere impiegati in progetti degli enti locali e territoriali.
Fini licenzia, Badoni Costa chiude dopo 200 anni minatori e operai in strada, infermieri sui tetti

I celebri magneti ideati e prodotti dalla Geomag-Plastwood di Calangianus. L’azienda ha annunciato al tribunale di essere costretta al fallimento

A Zola Predosa (Bologna) inizia il blocco ai cancelli della Fini compressori. Rdb e sindacati contestano la decisione dell’azienda di mettere in mobilità 108 dipendenti su 219 in presenza di un accordo per la cassa integrazione in deroga.

Dopo tre cicli di 16 settimane di cassa integrazione, in assenza di segnali da parte della proprietà, proclamano lo sciopero a tempo indeterminato i circa 50 dipendenti della ex Rdb (oggi gruppo fantini Scianatico) di Torano Castello (Cosenza). L’impresa produce laterizi e manufatti in cemento per costruzioni.

13 aprile – I 250 dipendenti della Lares e della Metalli preziosi sfilano in corteo per le strade di Paderno Dugnano; le due aziende metalmeccaniche sono fallite e i lavoratori sollecitano iniziative istituzionali per sbloccare le trattative con gli imprenditori che si sono detti interessati a rilevarle. A dicembre scadrà la cassa integrazione per tutti i lavoratori.

Alla Basell di Terni scade il termine entro il quale, da annuncio dell’azienda, sarà avviata la procedura di cessazione delle attività dello stabilimento chimico ternano. I parlamentari pd eletti in Umbria chiedono l’intervento del ministero e del governo. L’incontro è convocato per il 20 aprile.

Raggiunto l’accordo di massima tra azienda, istituzioni e sindacati per concedere la cassa integrazione in deroga a 7 lavoratori, su dodici totali, licenziati il 31 marzo scorso dalla Comar di Sinalunga, azienda di carpenteria e macchinari per legno. L’intesa prevede il ritiro dei licenziamenti ma andrà ratificata da tutti i soci dell’azienda.

Rsu e lavoratori della Rockwool di Iglesias, da sei mesi in assemblea permanente all’interno dello stabilimento in località Sa Stoia, decidono di portare la propria lotta all’esterno e organizzano un “accampamento” sul ponte di Campo Pisano. La cassa integrazione attivata dall’azienda (produzione di lana di roccia) per cessazione di attività sta per arrivare alla scadenza e al momento non si vede alcuna prospettiva per i lavoratori.

Il deputato pd Massimo Marchignoli presenta un’interpellanza urgente al ministero per lo sviluppo economico sul caso della Cnh di Imola, controllata Fiat che produce macchine per movimento terra. I 335 dipendenti sono in cassa integrazione dal 31 agosto scorso e da allora la commissione tecnica attivata al ministero non è riuscita a trovare una nuova iniziativa industriale per salvare i posti di lavoro.

Alla Provincia di Benevento viene firmato il Patto di servizio per il reinserimento occupazione dei 21 ex dipendenti della ditta “Domenico Russo & Figli” di Benevento, attualmente in cassa integrazione in deroga.

La direzione della Istamp di Baldichieri d’Asti annuncia che l’azienda è costretta a chiudere per mancanza di commesse. La fabbrica occupa una cinquantina di operai e dal 1973 produce stampi per grandi fabbriche quali Ceset e Piaggio. Del caso si parlerà nei prossimi giorni in un incontro tra le parti presso la Regione.

I sindacati chiedono alla Regione Friuli Venezia Giulia assicurazioni sul futuro per la Co.Solution, la newco che ha affittato macchinari e stabilimento e assunto 70 dei 106 dipendenti della fallita Euroform di Pordenone. Anche in attesa delle decisioni del curatore fallimentare, Co.Solution ha dato la disponibilità per gli adeguamenti richiesti al piano industriale e confermato il positivo avvio dell’attività in termini di ordinativi, fatturato e produttività.

La Scm, azienda riminese attiva nella produzione di macchine per la lavorazione del legno conferma la volontà di chiusura dello stabilimento Scm di Pesaro (Morbidelli) e il trasferimento del personale nello stabilimento di Rimini (su cui ha raggiunto un accordo con la Fiom Cgil di Pesaro). La ristrutturazione è motivata con la crisi e l’andamento del mercato. L’azienda parla di 32 pensionamenti, 22 dimissioni volontarie, 21 contratti a termine in scadenza e 71 lavoratori richiamati dalla cassa integrazione a zero ore.

I sindacati chiedono l’applicazione dei contratti di solidarietà per 24 mesi alla Europlastica di Pasiano di Pordenone, società di subfornitura nel mercato dell’elettrodomestico, in crisi da circa un anno e mezzo.
La richiesta è fatta in vista della scadenza degli ammortizzatori sociali oggetto dell’accordo vigente per i 77 dipendenti (sul totale di 140) dichiarati in esubero: 52 settimane di cassa integrazione ordinaria e un anno di cig straordinaria.

14 aprile – Renato Bonfanti, proprietario della Badoni Costa meccanica di Costa Masnaga, annuncia la chiusura per cessazione dell’attività e la mobilità per i circa 30 dipendenti. I sindacati avranno 45 giorni di tempo per cercare una soluzione. L’azienda metalmeccanica è un pezzo importante della storia industriale del Lecchese essendo stata fondata nella seconda metà del Settecento.

Ci sarebbe una società americana interessata a insediare proprie attività nell’area dello stabilimento dell’ex Finmek di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Lo ha annunciato il sindaco Giancarlo Giudicianni. Sono 140 i lavoratori ex Finmek al momento senza alcuna prospettiva occupazionale.

I vertici di Nca di Marina di Carrara annunciano la cassa integrazione ordinaria al cantiere navale per 13 settimane; il provvedimento interesserà 25 dipendenti tra operai e impiegati ed è stato motivato con il mancato ottenimento di commesse pubbliche registrato all’incontro al ministero dello sviluppo economico. In estate, quando il carico di lavoro è al minimo, la cig potrà arrivare a interessare 105 dipendenti sul totale di 198.

Arrivano le prime 76 lettere di licenziamento agli operai della Fini compressori di Zola Predosa (Bologna). L’azienda non intende recedere e Rdb e sindacati hanno dato mandato ai legali per impugnare i licenziamenti che riguardano 108 dei 219 dipendenti. I Comuni di Zola e Casalecchio forniscono il pasto agli operai che presidiano la fabbrica. Nelle lettere la Fini afferma che non esistono “alternative al personale strutturalmente in esubero”. I tagli riguardano soprattutto i settori produttivi: 23 su 24 al montaggio singolo, 26 su 30 al montaggio gruppi, 10 su 10 alla verniciatura, 3 su 3 ai disegnatori meccanici, 12 su 29 al magazzino. Il pd chiede l’intervento del ministero.

15 aprile – Al termine dell’incontro con l’azienda, i sindacati annunciano la proroga fino al 30 giugno della cassa integrazione in deroga per 1.257 dipendenti della Videocon di Anagni. Entro maggio ci sarà un nuovo incontro sulla situazione dei 60 dipendenti della controllata Cervino per i quali la cassa integrazione per crisi scade il 24 maggio.

Stato di agitazione alla Playtex di Pomezia dopo l’annuncio del licenziamento, il prossimo giugno, dei 120 dipendenti, quasi tutte donne. Rsu e lavoratori presidiano i cancelli con picchetti, striscioni, manifesti e proteste. La ristrutturazione del gruppo non coinvolge la divisione Lovable di Grassobbio (BG) della Branded Apparel Italia.

Positivo incontro per i dipendenti della Galvanotecnica & P.M. di Bologna (lavorazioni meccaniche e componenti per motocicli). L’azienda ha dato la disponibilità a sospendere i licenziamenti e ad attivare la cassa integrazione ordinaria fino alla fine di maggio, quando si concluderanno le verifiche aziendali sulle condizioni minime per un rilancio. Negli ultimi 18 mesi, 28 lavoratori su 47 sono stati in cassa a zero ore.

Due ore di presidio sotto i Portici del grano per i lavoratori Telecom della provincia di Parma. La protesta è contro il piano industriale annunciato dall’azienda che prevede migliaia di esuberi.

Approvata la mobilità in deroga per quindici lavoratori della Pumex di Lipari. Lo ha deciso la Commissione regionale per l’impiego. A febbraio avevano usufruito del beneficio altri 3 dipendenti. La Pumex, che produceva pomice per uso cosmetico ed edilizio, chiuse nell’estate del 2007 lasciando a piedi 38 dipendenti.

Edoardo Tusacciu, inventore delle barrette magnetiche e del gioco Geomag, comunica al tribunale di Tempio che non ci sono le condizioni per rispettare il concordato preventivo siglato nel 2008: per la Plastwood di Calangianus, che ai tempi delle grandi commesse aveva fino a 200 dipendenti, si apre la strada del fallimento. Tusacciu ha fatto sapere che appena possibile trasferirà in Cina idee e progetti.

E’ stato proclamato per il 3 maggio lo sciopero della guardie giurate della “Veritas” di Catania, che non ricevono lo stipendio da tre mesi. Dalle 14 si terrà un presidio davanti alla prefettura.

I sindacati metalmeccanici della Sidel di Parma proclamano un giorno di sciopero per il 21 aprile dopo che l’azienda ha annunciato 100 esuberi a seguito della delocalizzazione in Cina del reparto “asettico”. La Sidel è una multinazionale che produce impianti per l’alimentare.

Salvatore Mannironi la repubblica

Viaggio nella “Scatola globale”

Memphis, dove la crisi è finita. La città del Tennessee è sede dello “hub” intercontinentale della Federal Express uno dei massimi vettori mondiali di merci. E qui si capisce che il commercio è ripreso

Vista dallo spazio, nelle fotografie satellitari di GoogleMap sembra la più gigantesca delle basi militari della U. S. Air Force. Nei suoi vasti piazzali è parcheggiata la più potente flotta mondiale di jet “wide-body”, i colossi dei cieli. Ma se ingrandisci le foto scopri che quegli aerei anziché cacciabombardieri sono dei cargo. Benvenuti a Memphis, Tennessee. Lontani sono i tempi in cui questa città era un simbolo delle battaglie per i diritti civili di Martin Luther King nel profondo Sud, e la sua unica attrazione era il Rock’n Roll Museum dedicato a Elvis Presley. Oggi Memphis è la metropoli più dinamica d’America, dove le offerte di lavoro abbondano, e nel business trainante gli stipendi crescono a vista d’occhio, da un mese all’altro. Il suo segreto è in quell’aeroporto, il centro della Scatola Globale che ha ripreso a viaggiare freneticamente con la fine della recessione. Anche se il “tribunale” degli economisti – il National Bureau of Economic Research – esita ancora a decretare ufficialmente l’uscita dalla crisi, i segnali di euforia abbondano. L’indice Dow Jones ha ritrovato la soglia simbolica degli 11.000 punti. I colossi dei prodotti di consumo di massa, da Procter & Gamble a Colgate Palmolive, aumentano di colpo gli investimenti pubblicitari a ritmi che raggiungono il 20%. Il magazine Newsweek esce con una copertina trionfale su “The Comeback Country”, ovvero la riscossa dell’America. Il sottotitolo è eloquente: “Come ci siamo ripresi, e perché siamo destinati a essere in testa ancora una volta”.

Da nessuna parte questa fiducia è “fisicamente” visibile quanto all’aeroporto merci di Memphis. E’ lo hub intercontinentale di Federal Express, meglio nota come FedEx. Una sigla che solo gli inesperti traducono ancora in “corriere espresso”. In realtà è un impero mondiale del software logistico e dei trasporti, che governa dall’origine in fabbrica fino alla destinazione finale a casa del consumatore il percorso della Scatola Globale. Sorvolando oceani, traversando continenti, intasando metropoli con i furgoni della consegna porta a porta. E’ un barometro preciso della salute dell’economia mondiale. Un indicatore che da qualche mese è impazzito di attività. Come il carosello vorticoso dei nastri scorrevoli nel terminale di Memphis. Somiglia a quelle rotatorie che tutti i passeggeri conoscono, dove in ogni aeroporto si aspetta la consegna dei bagagli. Solo che gli esseri umani addetti a scaricare da questo nastro scorrevole sembrano nani. Perché nello scalo di Memphis i nastri sono dieci volte più larghi, smisurati: quel che occorre per vomitare le migliaia di scatoloni che ad ogni ora vengono scaricati dal ventre dei jet-cargo, e poi istradati su camion verso tutte le città americane. Che l’economia globale abbia ripreso a girare lo dice il viavai incessante di decolli e atterraggi su queste piste di Memphis: gli Md-80, gli enormi trireattori Md-11, e i primi Boeing 777 ordinati di recente per star dietro alla ripresa. Memphis, Tennessee, è un nome familiare a tutti i piloti del mondo. Mentre le compagnie passeggeri passano da una cura dimagrante a un’ondata di scioperi, FedEx offre gli stipendi più alti d’America a chi accetta i suoi turni massacranti, gli straordinari obbligatori, il ritmo folle dei voli che consegnano la Scatola Globale.

La ripresa dei commerci mondiali è arrivata, più repentina e vigorosa di quanto ci aspettassimo. Subito ha preso i colori variopinti della nuova bandiera americana: il marrone dei furgoni Ups parcheggiati in seconda fila che intasano le vie di Manhattan e Los Angeles, il giallorosso dei camioncini Dhl e Tnt, il biancorosso dell’armata di furgoni FedEx. Hanno sostituito nel paesaggio urbano i camion del latte e della posta di una volta, sono più ubiqui dei vecchi autobus scolastici color arancione. Hanno imposto l’egemonia americana nel mondo intero: con gli stessi colori traversano le vie di Shanghai e Mumbai, Milano e Londra, perché almeno in questo campo l’America regna sovrana e incontrastata. Se la globalizzazione nel trasporto delle merci ha un brevetto, questo appartiene alle multinazionali Usa della logistica, sono loro a gestire minuto per minuto i
percorsi della Scatola Globale.

Dalla catena di montaggio in una fabbrica di microchips nel Guangdong all’assemblaggio di queste memorie in una fabbrica di computer a Taiwan. Poi nei cartoni d’imballaggio dal porto di Taipei a bordo di una nave portacontainer che batte bandiera sudcoreana e paga i dividendi a un armatore di Singapore. Poi ancora al porto californiano di Long Beach, quindi al trasbordo su una ferrovia merci posseduta da Warren Buffett, oppure su un Boeing cargo diretto a Memphis, e da qui sulla flotta dei camion che arrivano negli Apple Store di Manhattan, nei depositi di Amazon a Seattle, nei supermercati di elettronica BestBuy. Questo circuito era al collasso ancora pochi mesi fa. Ora ha ripreso a funzionare a pieno ritmo. E la spia più fedele è proprio il gigante di Memphis, il centro nervoso della rete logistica che unisce le fabbriche cinesi ai consumatori americani, l’Italia del Nordest alla California, il Brasile al Canada. Dal quartier generale del Tennessee la FedEx Corporation annuncia che i suoi profitti nel primo trimestre del 2010 sono più che raddoppati rispetto all’anno scorso.

“Per noi – dice il presidente di FedEx Frederick W. Smith – la ripresa dell’economia mondiale procede a gonfie vele”. E se lo dice lui, sa di cosa sta parlando. “Il volume quotidiano di merci trasportate da FedEx è risalito del 18% negli ultimi tre mesi”. Per lo scalo-hub intercontinentale di Memphis si annunciano tempi ancora più frenetici. La multinazionale ha appena deciso nuovi investimenti per 3 miliardi di dollari, in gran parte destinati ai nuovi acquisti di Boeing 777 per potenziare la flotta cargo. In aumento del 5% anche il volume delle merci trasportate su gomma dal corriere espresso, le consegne porta a porta dei suoi fattorini su camion. La Scatola Globale che torna a viaggiare febbrilmente ha colto impreparati altri protagonisti del circuito mondiale. Gli armatori non si aspettavano un rimbalzo così veloce. Le flotte mercantili, che tra il 2004 e il 2008 avevano conosciuto un’età dell’oro con aumenti dei noli a due cifre percentuali ogni anno, nello choc della recessione si sono rattrappite. L’anno scorso più di 500 navi portacontainer sono state messe a riposo, e ben 200 grandi navi sono state mandate nei cantieri di rottamazione. Quando è finito lo sciopero dei consumi, il trasporto marittimo non ha potuto reagire di scatto.

“E’ stata una fantastica opportunità per noi”, dice Jess Bunn della FedEx nell’annunciare che raddoppiano i voli cargo tra Memphis e i principali aeroporti asiatici. La concorrente Ups ha visto un aumento dei volumi di trasporto del 12%. Le aziende che devono consegnare i loro scatoloni alla grande distribuzione – jeans o telefonini, computer o scarpe – oggi sono disposte a pagare un sovrapprezzo fino al 50% per trasportarle via cielo, vista la carenza di navi. Un caso esemplare è quello di Pat Moffett, capo della logistica internazionale alla Audiovox Corporation di Hauppauge, nello Stato di New York. Questo grossista di prodotti elettronici, che importa soprattutto dalla Cina, si è trovato nei giorni scorsi di fronte a un dilemma: aveva 13 container pieni di lettori-Dvd fermi su un molo del porto di Hong Kong. La ragione? Una nave portacontainer, sovraccarica di ordini, aveva dovuto rinunciare a trasportarli. Ma i supermercati di New York aspettavano quei Dvd-player per rifornire i propri scaffali, presi d’assalto dai consumatori come ai bei tempi andati. Moffett ha dovuto arrendersi, ha pagato il 45% in più perché gli scatoloni coi lettori Dvd viaggiassero su aereo, in modo da consegnarli puntuali ai clienti in America. A questa febbre della ripresa si sono agganciate anche le esportazioni made in Usa. Navi e jet-cargo non viaggiano più semivuoti quando tornano dagli scali americani verso l’Asia. Dopo tanti anni anche il made in Usa ha ripreso a solcare gli oceani nel circuito intercontinentale degli scatoloni.

Davvero quindi è l’America “The Comeback Country”, il leader tornato in sella dopo la rovinosa caduta del 2008 e 2009? In realtà, come dimostrano gli ultimi dati dell’Ocse, la ripresa è partita dalla Cina. Da lì ha contagiato il resto dell’Asia, poi grazie all’aumento dei prezzi delle materie prime ha trainato tutto il club dei Bric: indiani brasiliani e russi. Adesso, è vero, anche l’America torna a ruggire. L’aumento di oltre 160.000 posti di lavoro nell’ultimo mese, il boom del Dow Jones che compie un anno, i 200.000 consumatori che in nel solo weekend del lancio inaugurale si sono avventati sull’iPad della Apple, incuranti dell’alto costo: gli indicatori positivi si accavallano. Non è un caso che rafforzino gli investimenti sulla propria immagine i più grandi acquirenti mondiali di spazi pubblicitari come la Procter & Gamble, produttore di marche globali come lo shampoo Pantene, i pannolini Pampers e il dentifricio Crest. Un solo dubbio affiora nella copertina esuberante di Newsweek: siamo destinati a rifare tutto come prima? A osservare il duetto rinato fra America e Cina, o la spensieratezza di Wall Street, sembra quasi che il biennio della grande recessione sia stato solo un brutto sogno.

da la repubblica, 13 aprile, federico rampini