Una vita activa fondata sul debito

Il manifesto – 13 Dicembre 2009

INTERVISTA |   di Cosma Orsi

Il modello dominante di attività economica, basato sulla finanza e sulla conoscenza, ha la sua genesi nella deregulation dei mercati e i suoi necessari corollari sono la privatizzazione dei servizi sociali e una flessibilità produttiva e del lavoro La compressione dei salari aggrava la crisi. Servono interventi mirati a garantire continuità di reddito, l’accesso alla formazione e all’apprendimento
La genesi della crisi attuale sta nella deregulation dei mercati finanziari degli anni Ottanta, che ha segnato il tramonto di un regime di accumulazione fondato sulla grande impresa, su un mercato del lavoro incentranto su un comprosmesso sociale tra lavoro e capitale. Da allora, il confine tra sfera produttiva e sfera finanziaria si è progressivamente dissolto e il capitale finanziario e la conoscenza sono divenute gli assi su cui far ruotare la produzione della ricchezza e, cosa più importante, a una precariazzazione dei rapporti di lavoro e una privatizzazione dei servizi sociali.
La tesi presentata in questa intervista da Andrea Fumagalli, che si aggiunge a quelle già pubblicate nella serie «il capitalismo invecchia?», cerca di individuare anche delle forme di resistenza al capitalismo cognitivo.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del ’29?
La crisi economica attuale è una crisi sistemica e una crisi globale. È la crisi dell’intero sistema capitalistico così come si è andato configurando dagli anni Novanta del secolo scorso. Ha quindi senso un confronto con la crisi del ’29.
La maggiore analogia sta nel fatto che l’attuale crisi può essere definita, a differenza di quella degli anni Settanta, come «crisi di crescita». Essa trova i suoi prodromi agli inizi quando iniziano a configurarsi le caratteristiche del capitalismo cognitivo-finanziario e ha termine la fase di fuoriuscita dalla crisi del paradigma fordista-taylorista. La maggiore differenza sta nel fatto che il meccanismo di accumulazione e valorizzazione oggi dominante è strutturalmente diverso da quello industriale-fordista, fondato su una struttura sociale disciplinare, un modello omogeneo di organizzazione del lavoro (grande impresa, sfruttamento di economie statiche di scala, operaio-massa), sulla preminenza della produzione materiale manifatturiera e un meccanismo di sfruttamento centrato sull’estrazione di plusvalore relativo (sussunzione reale). Oggi, il sistema capitalistico si fonda su una flessibilità produttiva e del lavoro, sul ruolo centrale della conoscenza e dello spazio come fattori produttivi grazie alla diffusione delle tecnologie linguistico-comunicative, lo sfruttamento di economie dinamiche e sociali di scala (apprendimento e rete), l’allargamento della base produttiva anche alla riproduzione e al consumo, il peso crescente della produzione immateriale, la sussunzione totale della vita al capitale (accumulazione bioeconomica). Si tratta di cambiamenti che richiedono interventi di risoluzione alla crisi decisamente diversi da quelli sperimentati con il new-deal roosveltiano dopo il ’29.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell’analisi economica – e della storia in generale?
Molto, al punto che Roger Bootle, managing director di Capital Economics, uno dei più importanti centri di consulenza macroeconomica della City londinese, ha dichiarato che gran parte della moderna teoria economica «è un disastro e una disgrazia» (The Observer, 18 ottobre).
La scienza economica ha sempre rappresentato un «sapere» fondamentale per la gestione della governance politica e sociale. Essa è spesso stata presentata come «oggettiva» e «neutrale» e, a tale fine, la logica formale non si è limitata solo ad essere uno strumento di analisi ma è diventata anche «sostanza» con elementi autoreferenziali, con l’effetto di rendere i modelli teorici funzionali sì alla struttura di potere ma totalmente incapaci di leggere la dinamica del reale. Per quanto riguarda nello specifico i mercati finanziari, va registrata la crisi di gran parte delle teorie sviluppate negli ultimi quaranta anni e che sono alla base dell’operare di tali organismi; tali teorie hanno peraltro fruttato negli ultimi decenni tanti premi Nobel per l’economia a diversi tra i loro inventori. Nel 1997, il premio Nobel dell’Economia fu assegnato a R. Merton e a M. Scholes per lo sviluppo di «un nuovo metodo per la valutazione dei derivati» (modello di Black, Sholes, Merton). Nel 2003 il premio Nobel per l’economia è stato invece assegnato a R. Engle, e a C. Granger, per lo sviluppo di «metodi di analisi delle serie storiche economiche con volatilità variabile nel tempo», applicati poi ai mercati finanziari.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
La libera circolazione dei capitali è l’esito della deregulation dei mercati finanziari e non a caso si sviluppa appieno negli anni Ottanta, quando comincia la transizione al capitalismo cognitivo. I mercati finanziari ne sono oggi il cuore pulsante.
Provvedono infatti, al finanziamento dell’attività di accumulazione, soprattutto nel caso delle produzioni cognitive immateriali (conoscenza e spazio). In secondo luogo, in presenza di plusvalenze, svolgono il ruolo di moltiplicatore dell’economia e redistribuzione, seppur distorta, del reddito. In terzo luogo sostituiscono lo stato come assicuratore sociale (canalizzazione forzata di parti crescente dei redditi da lavoro: tfr, previdenza, istruzione, salute).
Da questo punto di vista, i mercati finanziari rappresentano la privatizzazione della riproduzione della vita. Sono quindi biopotere. Infine sono il luogo dove si cerca di misurare, capitalisticamente, il valore della cooperazione sociale (di apprendimento e di rete) che sta oggi alla base dell’accumulazione. Sulla base di queste considerazioni, occorre prendere atto che non vi è più separazione netta tra sfera produttiva e sfera finanziaria. La transizione al capitalismo bioeconomico cognitivo è stata la reazione politica (sia conservatrice che di centro-sinistra), per uscire dalla crisi del capitalismo industriale-fordista degli anni ’70. È quindi chiaro che finché la politica oggi si limita a essere lo strumento di governance (meglio: il tentativo di governance) del capitalismo contemporaneo, parlare di regolazione dei mercati finanziari è del tutto fuori luogo e ipocrita. In tale contesto, parlare di democrazia è puro ideologismo. La democrazia (intesa, qui, come la supremazia della res pubblica/commonia sulla res oeconomica) è morta negli anni Settanta.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull’asse Washington – Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c’è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l’Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
La crisi attuale rimette in discussione l’egemonia finanziaria degli Stati Uniti. La fuoriuscita da questa crisi segnerà necessariamente uno spostamento del baricentro finanziario verso oriente e in parte verso il Sud (America). Già a livello commerciale, i processi di internazionalizzazione hanno sempre più evidenziato uno spostamento del centro produttivo verso oriente e verso il Sud del mondo.
In questa prospettiva, l’attuale crisi finanziaria mette fine a una sorta di anomalia che aveva caratterizzato la prima fase di diffusione del capitalismo cognitivo: lo spostamento della centralità tecnologica e del lavoro cognitivo verso India e Cina in presenza del mantenimento dell’egemonia finanziaria in Occidente. Il primato tecnologico e quello finanziario tendono a ricongiungersi anche a livello geo-economico. In tale contesto, cresce anche l’instabilità internazionale, dal momento che non sembra ravvisabile al momento una stabile gerarchia valutaria internazionale (un impero senza egemonia). In questa situazione di «contesa» l’Europa potrebbe giocare un ruolo fondamentale, ma è nelle condizioni di non poterlo fare, perché sconta il fatto di aver puntato esclusivamente sull’unione monetaria (primato della ragione economica sulla ragione sociale), senza preoccuparsi di creare le premesse per una politica europea fiscale con un budget autonomo dall’influenza degli stati-nazione membri. Non ci sono così gli strumenti per un intervento socio-economico coordinato in grado di poter attutire i contraccolpi della crisi economica. È un ulteriore sintomo del fallimento della costruzione economica dell’Europa.
L’attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell’offerta, anziché della domanda, è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
L’utilizzo della spesa pubblica ha la finalità di ristabilire la capacità di governance dei mercati finanziari. L’attuale crisi finanziaria mostra che non è possibile una governance istituzionale dei processi di accumulazione e distribuzione fondati sulla finanza. I tentativi di governance (ex-post) che sono stati varati nei mesi scorsi non sono in grado di incidere più tanto sulla crisi in atto. E non può essere diversamente, se si considera che la Bri (Banca dei Regolamenti Internazionali) stima il valore dei derivati in circolazione in circa 556 trilioni di dollari (pari a 11 volte il Pil mondiale). Nel corso dell’ultimo anno, tale valore si è ridotto di oltre il 40%, distruggendo liquidità per oltre 200 trilioni di dollari. Ciò ha significato distruzione reale di liquidità per circa 18 trilioni di dollari (dati Bri). Ora, gli interventi monetari di iniezione di nuova liquidità finora realizzati in tutto il mondo non superano i 9 trilioni di dollari: una cifra insufficiente per compensare le perdite. È tale differenza che spiega come mai, nonostante i tanti timori, non vi sia stato finora nessun effetto inflazionistico. La creazione di nuova moneta è finora inferiore a quella distrutta dalla crisi.
Tuttavia, a partire da giugno 2009, il calo del Pil tende ad arrestarsi. La compressione dei salari e dei redditi ha l’effetto di peggiorare la situazione di crisi. Bisognerebbe invece rivitalizzare la cooperazione sociale alla base dell’accumulazione odierna con interventi mirati a garantire continuità di reddito, accesso ai beni comuni relazionali, di formazione, di apprendimento (commonfare). Ma tali misure (che si traducono in una regolazione salariale basata sulla proposta di basic income e in una capacità produttiva fondata sulla libera e produttiva circolazione dei saperi) minano alla base la stessa natura del sistema capitalista, ovvero la ricattabilità del reddito dal lavoro e la violazione del principio di proprietà privata dei mezzi di produzione (ieri le macchine, oggi la conoscenza). In altre parole, un compromesso sociale (new deal) adeguato alle caratteristiche del nuovo processo di accumulazione è solo un’illusione teorica, ed è impraticabile da un punto di vista politico. Siamo dunque in un contesto storico in cui la dinamica sociale non consente spazio allo sviluppo di pratiche e soprattutto «teorie» riformiste. Ne consegue che, poiché è la praxis a guidare la teoria, solo il conflitto e la capacità di creare movimenti «dal basso» possono consentire – come sempre – il progresso sociale dell’umanità.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell’indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l’economia mondiale?
Il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare è inversamente proporzionale alla loro capacità di mobilitazione e conflitto, oggi e nell’immediato futuro.

La formica Italia nel suo piccolo va lontano

(secondo marco Fortis de Ilsole240re)

formicheLa produzione industriale italiana a settembre è diminuita del 5,3% dopo essere cresciuta del 5,8% ad agosto: due dati di segno opposto ugualmente anomali e un po’ “ballerini”, come capita spesso con i valori mensili de-stagionalizzati.

Ciò che conta è che nel terzo trimestre 2009 la crescita consolidata sia stata del 4% sul trimestre precedente: un dato che appare più in linea anche con le recenti indicazioni del superindice dell’Ocse, molto positive per l’Italia.

Tuttavia la ripresa mondiale, pur estendendosi geograficamente e settorialmente, resta ovunque debole ed è opportuno interrogarci sul perché.
A un anno dall’inizio della crisi, i debiti delle famiglie rimangono ancora molto elevati in quei paesi che maggiormente hanno contribuito a innescare la “bolla” immobiliare e finanziaria e poi a farla deflagrare. Ci concentriamo su quattro di essi: Stati Uniti, Gran Bretagna, Irlanda e Spagna.
Questi paesi sono stati definiti «cicale», contrapponendoli all’Italia, che pur con i suoi problemi strutturali può essere considerata fondamentalmente una «formica», insieme ad altre nazioni dell’Europa continentale come Germania e Francia, ugualmente caratterizzate da un basso indebitamento privato e da una maggiore propensione verso l’economia “reale”.
Secondo gli ultimi dati disponibili della Fed, a giugno 2009 i debiti delle famiglie americane, anche se in lieve flessione, risultavano ancora pari a circa 31.600 euro per abitante.
A luglio 2009, secondo la Bce, lo stock di prestiti erogati dalle banche alle famiglie inglesi ammontava a 23.300 euro, mentre a settembre la stessa cifra era di 19.200 euro pro capite per le famiglie spagnole e di ben 32.800 euro per gli irlandesi, contro uno stock di debiti delle famiglie italiane equivalente a poco più di 8mila euro per abitante.
Dunque, le famiglie americane e irlandesi restano tuttora indebitate grosso modo quattro volte di più di quelle italiane e le famiglie spagnole e inglesi 2,5-3 volte di più.

Queste cifre, che non sono molto diverse in altri paesi “cicala” anglosassoni o del Nord Europa (come Islanda, Olanda, Australia, eccetera), unitamente all’aumento della disoccupazione spiegano perché i consumi privati di mezzo mondo occidentale sono ancora fermi, così come gli
investimenti in edilizia.

Questa situazione frena, di fatto, il commercio internazionale e così anche le economie dei grandi paesi esportatori ( tra cui Germania, Giappone, Italia) rendendo la ripresa globale oltremodo
faticosa. La congiuntura mondiale non può trarre particolare giovamento nemmeno dagli imponenti investimenti pubblici della Cina, che stanno nettamente privilegiando gli acquisti di beni e servizi nazionali in un’ottica essenzialmente protezionistica, con scarse ricadute sulle importazioni dall’estero.
La recente pubblicazione delle previsioni infra-annuali della Commissione europea, nonostante tutti i limiti che in questi momenti d’incertezza presentano gli esercizi previsionali, ci permette di fare il punto sulla crisi mondiale e italiana e sulle possibili dinamiche della ripresa. Nelle ultime settimane, infatti, si sono prospettati per l’Italia tempi quasi biblici per ritornare ai livelli di attività economica pre-crisi.

Questa eventualità negativa è stata presentata quasi come fosse un problema squisitamente italiano, derivante dalle nostre intrinseche “fragilità” e da una politica economica anti-ciclica da alcuni ritenuta troppo debole. La realtà è invece molto più complessa e in alcuni casi assai diversa da quanto comunemente si creda, almeno per ciò che concerne alcune componenti del Pil e altre variabili nel cui caso saranno invece gli altri paesi, e non l’Italia,a impiegare tempi molto lunghi per riprendersi.
Consideriamo le stime e le previsioni della Commissione europea sull’arco 2007-2011 e svolgiamo un confronto comparato tra l’Italia e i quattro già citati paesi “cicala” sulla base di otto fotografie della crisi economica che analizzeremo nel seguente ordine: Pil, investimenti in costruzioni,
consumi privati, investimenti in macchinari e attrezzature, esportazioni di beni e servizi, spesa pubblica, aumento del rapporto debito pubblico/Pil, aumento del tasso di disoccupazione.

1. Prodotto interno lordo. Analogamente a quanto è avvenuto in altri due grandi paesi esportatori come Giappone e Germania, rispetto al 2007 il Pil dell’Italia è caduto sinora di più rispetto a quello dei paesi “cicala” (Irlanda a parte, che è sprofondata in un autentico abisso) e nel 2011 saremo ancora 3-4 punti percentuali sotto i livelli del 2007, grosso modo come la Spagna, mentre Gran Bretagna e Usa faranno un po’ meglio (sempre che le previsioni azzecchino). Va rilevato che il nostro Pil era già calato nel 2008 dell’1% mentre quelli degli altri paesi no. Questa flessione anticipata è stata spesso portata a esempio come un chiaro sintomo di debolezza strutturale del nostro paese. Ma non è così, anzi è vero esattamente il contrario. Infatti, nel 2008 il calo del Pil italiano è stato fortemente influenzato dalla crisi mondiale dell’edilizia che ha agito molto negativamente e prima che su altri paesi sulle nostre esportazioni. Queste ultime hanno letteralmente “preavvertito” l’arrivo del crack immobiliare globale, essendo l’Italia leader tra gli esportatori di beni per la casa: dalle piastrelle ai mobili, dai rubinetti agli elettrodomestici, dai marmi alle macchine per costruzioni. Un nostro punto di forza ha finito così paradossalmente col penalizzarci. Dal 2008 in poi la dinamica del Pil italiano risulta invece abbastanza simile a quella della Gran Bretagna e migliore di quella della Spagna.

2. Investimenti in costruzioni. Qui gli indicatori sono pessimi per i paesi “cicala” e decisamente migliori per la “formica” Italia. È stato proprio il crollo del settore immobiliare nei paesi anglosassoni e in Spagna a scatenare la crisi,amplificata dall’effetto subprime. Il disastro è stato
tale che nel 2011 gli investimenti in costruzioni in Spagna saranno ancora del 30% inferiori a quelli del 2007 e più bassi di oltre il 60% in Irlanda. La previsione della Commissione europea di un importante recupero nel 2010-2011 dell’edilizia americana, per il momento ancora ai minimi storici
per ciò che riguarda l’avvio di nuovi cantieri residenziali,a nostro avviso potrebbe rivelarsi un po’ troppo ottimistica.

3. Consumi privati. Mentre i paesi anglosassoni e la Spagna, dopo la crescita drogata dai debiti privati degli scorsi anni, sono costretti a rivedere drasticamente i loro modelli di sviluppo, la spesa delle famiglie italiane sta resistendo bene in questa crisi epocale. E poiché in tutti i paesi avanzati i consumi privati hanno un peso rilevante nel Pil e inoltre costituiscono un indicatore sensibile del benessere interno, è importante che su questo fronte l’Italia stia reagendo positivamente. La Commissione prevede che entro il 2011 (dunque non in tempi biblici) i consumi privati
italiani avranno quasi completamente recuperato i livelli del 2007, dopo una caduta dell’1,5% nel 2009 e una ripresa sia nel 2010 che nel 2011. Viceversa, nel 2009 i consumi sono diminuiti del doppio rispetto all’Italia in Gran Bretagna, più del triplo in Spagna e di oltre cinque volte in
Irlanda. Nel 2010, inoltre, i consumi continueranno a flettere negli Stati Uniti (sarà il terzo anno consecutivo, nonostante le imponenti erogazioni di assegni statali per sostenere la spesa dei cittadini). E lo stesso avverrà negli altri paesi “cicala”, sicché nel 2011 i consumi degli inglesi saranno ancora inferiori di oltre l’1% rispetto ai livelli del 2007, quelli degli spagnoli di oltre il 5% e quelli degli irlandesi del 9 per cento.

4. Investimenti in macchinari. L’Italia dovrebbe reagire meglio dei paesi “cicala” anche al tracollo degli investimenti in macchinari e attrezzature, risultando seconda per capacità di recupero soltanto agli Stati Uniti (ammesso che le previsioni della Commissione Ue non siano anche in questo caso troppo ottimistiche per l’America). Nel 2011 il nostro paese avrà parzialmente riavvicinato i livelli d’investimento del 2007 in una misura di oltre 10 punti superiore alla Spagna, di quasi 20 punti in più rispetto alla Gran Bretagna e di oltre 20 punti in più rispetto all’Irlanda.

5. Esportazioni. La nostra specializzazione nell’export di beni durevoli per la casa e di beni di investimento ci penalizza rispetto ai paesi “cicala”, le cui esportazioni, oltre a pesare di meno nei loro Pil, sono diminuite in misura inferiore rispetto alle nostre. Il caso dell’Italia è simile a quello
del Giappone e della Germania, altri importanti paesi esportatori particolarmente colpiti dalla paralisi dei consumi e degli investimenti altrui. Nel 2009 l’export italiano calerà in volume del 20% (in Giappone addirittura del 27%). Ciò evidenzia come in Italia, diversamente da quanto è
accaduto nei paesi “cicala”, la crisi globale si sia scaricata più sulle imprese che sulle famiglie. I tempi della ripresa saranno perciò cruciali: se non saranno troppo lunghi, potremo evitare che la crisi delle nostre imprese esportatrici si trasformi anche da noi in una crisi delle famiglie,
attraverso un eventuale aumento eccessivo della disoccupazione.

6. Spesa pubblica. Un’altra delle ragioni per cui il Pil dei paesi “cicala” sta diminuendo in misura inferiore di quello italiano, almeno fino a questo momento, è che tali paesi stanno facendo molta spesa pubblica anti-ciclica e probabilmente continueranno a farla in misura rilevante anche in futuro, rischiando di “scassare” le finanze statali. Nel 2011 la spesa pubblica della Spagna in volume sarà così del 14% superiore a quella del 2007 e quella degli Stati Uniti del 13%, mentre quella della Gran Bretagna, dopo essere cresciuta del 7% sino al 2010, dovrebbe diminuire leggermente nel 2011 (ma sarà davvero così?) a un livello del 5% superiore a quello del 2007. Per contro nel 2011 la spesa pubblica italiana risulterà solo del 2,5% maggiore di quella del 2007.

7. Debito pubblico. L’incremento della spesa pubblica e i salvataggi dei sistemi bancari graveranno sempre di più sui conti pubblici dei paesi “cicala”, mentre l’Italia, avendo il terzo debito pubblico del mondo, dovrà mantenere una politica di rigore. Il nostro rapporto debito/Pil aumenterà
più per il calo del Pil che per l’aumento della spesa. Sicché nel 2011 in Italia tale rapporto (117,8), pur preoccupante, sarà superiore di 14 punti a quello del 2007 (103,5), mentre notevolmente maggiore sarà il peggioramento dell’indebitamento pubblico in Spagna (+38 punti rispetto al 2007) e Gran Bretagna (+44 punti), per non parlare dell’Irlanda (+71 punti in quattro anni!). Per gli Stati Uniti disponiamo solo della previsione dell’Fmi per il 2010 che tuttavia già prevede per il prossimo anno un peggioramento del rapporto debito/Pil di 32 punti rispetto al 2007.

8. Disoccupazione. Grazie al meccanismo degli ammortizzatori sociali (che ha sin qui permesso a molte nostre imprese di sopravvivere in “apnea”) anche il mercato del lavoro ha tenuto molto meglio in Italia che nei paesi “cicala”.
E nel 2011 l’incremento cumulato del nostro tasso di disoccupazione rispetto al 2007 sarà sensibilmente inferiore a quello dei paesi anglosassoni e della Spagna.

Il dramma della crisi italiana dietro l’euforia dei dati Ocse

oil-on-waterCapita che i titoli dei giornali siano uguali, in particolare se le aperture riguardano notizie economiche. Di solito si tratta più di propaganda che di informazione. E’ questo il caso di sabato scorso, 7 novembre, quando sono stati pubblicati i dati Ocse relativi al superindice economico.

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Reddito base e disoccupazione

di Luciano Gallino

la Repubblica – 16 settembre 2009


Sul fronte dell’occupazione la crisi ci consegna uno scenario con alcuni tratti decisamente negativi. Sindacati e Confindustria sono d’accordo nel prevedere che nei prossimi mesi i disoccupati continueranno ad aumentare. Tolta una minoranza che troverà abbastanza presto un lavoro decentemente retribuito, in linea con la qualifica professionale posseduta, nel 2010 e dopo la loro massa si dividerà in tre gruppi: quelli che per vivere dovranno accettare un lavoro mal pagato, al disotto delle loro qualifiche e titoli di studio; i disoccupati di lunga durata, che dovranno aspettare anni prima di trovare un posto; infine quelli, soprattutto gli over 40, che un lavoro non lo troveranno mai più. Questo perché dopo le ristrutturazioni aziendali imposte o favorite dalla crisi, la produttività crescerà; ma insieme con essa aumenterà il numero di persone che dal punto di vista della produzione appaiono semplicemente superflue.

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La crisi finanziaria, tra un autunno gelido e una primavera calda.

crisi-finanziariaUn anno vissuto precariamente
Un anno di crisi globale. Nulla sarà come prima.
Il G8 giustifica la crisi economica come mancanza di regole globali a livello finanziario.
I precari/le precarie vivono la crisi come opportunità di nuovi diritti e nuovo welfare.

In occasione della presentazione del volume a cura di A.Fumagalli e S.Mezzadra, “Crisi dell’economa globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici” (ed. Ombre Corte, Verona, 2009) discussione su precarietà, crisi economica, scenari per il prossimo autunno a Milano e dintorni. Un autunno che si prospetta gelido, in vista di una primavera calda.

h. 19.00 Aperitivo e stuzzichini

h. 21.00
“Sei tesi sulla crisi finanziaria”

presentazione ed incontro aperto

Organizza: Associazione BioS, Associazione San Precario, Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa

Giovedì, 16 luglio 09, h.19
circolo anarchico Ponte della Ghisolfa,
V.le Monza 255, MM1 precotto