¿il nostro tempo è adesso? Da sempre precari!

E’ interessante leggere le 10 proposte che la rete nazionale “Il nostro tempo adesso” ha presentato nell’assemblea nazionale del 19-20 novembre dall’ambizioso titolo “Liberiamoci della precarietà”. Si tratta di 10 punti, nella maggior parte dei casi, condivisibili. Chi non è, infatti, d’accordo con affermazioni “Contratto stabile per un lavoro stabile”, “Il lavoro deve essere pagato bene”, “Garanzia della pensione”, “Diritto di voto e di sciopero per i precari/e”, ecc.? Alcune preposizioni sono più discutibili, come la richiesta di “un reddito minimo di inserimento”. Inserimento dove? Se la precarietà — come viene velatamente riconosciuto anche da “Il nostro tempo è adesso” — è sempre più esistenziale, perché allora si parla solo di “continuità di reddito” (quindi solo erogato quando non c’è il lavoro) e per di più funzionale all’accettazione di un (qualsiasi) posto di lavoro? Se la precarietà è esistenziale perché la vita stessa è diventata fonte di valore, perché non avere il coraggio di chiedere una “garanzia di reddito incondizionato”?
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15 ottobre giornata globale contro l’austerity: dal diritto all’insolvenza allo sciopero precario

Il 15 ottobre è stata lanciata una giornata, a carattere europeo, di mobilitazione contro l’austerity e le politiche neoliberiste, assunte come strategiche dalla Commissione europea e dalla BCE e peraltro responsabili dell’ultimo pesante ciclo di crisi globale e finanziaria che le banche e le grandi lobby hanno scatenato contro la cittadinanza tutta.
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Una vita da borsista all’Istituto Mario Negri “Qui di assunti ci sono solo le segretarie”

da ilfattoquotidiano di Claudia Campese

29 giugno 2011

Hanno gli stessi obblighi di un lavoratore subordinato ma in realtà la loro borsa prevede 750 euro al mese. “Devono ancora imparare”, si giustifica il direttore Silvio Garattini. “E intanto nessuno ci versa un euro di contributi”, denunciano i ricercatori

“Noi non conosciamo il fenomeno del precariato. In 50 anni non abbiamo mai avuto questo problema”. E’ fiero Silvio Garattini, fondatore e direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche ‘Mario Negri’. Il “direttorissimo” come lo chiamano i ricercatori del centro, che precari invece si sentono eccome. “Lì dentro di assunte ci sono solo le segretarie”, scherzano alcuni. E i capi, dirigenti e luminari di uno degli istituti italiani – un ente morale no profit – più prestigiosi e noti anche all’estero. I suoi lavoratori sono per lo più borsisti – circa 168 solo nella sede di Milano – che percepiscono 750 euro al mese. Alcuni da più di cinque anni, al di là di ogni ragionevole periodo formativo, ricordano. Laureati o dottorandi, alcuni con esperienze lavorative già maturate. Giovani che “quando arrivano non sanno fare nulla e hanno bisogno di aiuto e consiglio”, invece, per il professor Garattini. Borsisti che devono chiedere permessi, hanno orari rigidi e ferie programmate, ma non un contratto. “E intanto nessuno mi versa i contributi”, fa notare uno di loro.

“Lavorano otto ore come tutti, usano i laboratori e hanno a disposizione le attrezzature come gli altri”, spiega disinvolto il ‘direttorissimo’. “Ma non sono mica come i ricercatori dell’università che fanno anche lezioni ed esami”, aggiunge un po’ scandalizzato. Eppure “l’attività di laboratorio è un’attività pienamente lavorativa”, spiega Massimo Laratro, avvocato del Lavoro del collettivo ‘San Precario’, a cui si sono rivolti alcuni dei ricercatori del ‘Mario Negri’. Quello che si svolge al centro, continua, è un “chiaro rapporto di lavoro subordinato, dove si può pretendere e obbligare”. Al contrario di una borsa, dove si dovrebbe anche studiare, guardare e imparare.

E all’istituto di obblighi e pretese ce n’è parecchi. Tutti i borsisti sono dotati di un badge, con cui viene controllato che svolgano le loro otto ore giornaliere. Impossibile mangiare in fretta e uscire mezz’ora prima: la pausa pranzo è di un’ora, tassativa. Testimone la ‘strisciata’. “Il badge serve per ragioni di sicurezza, – si giustifica Garattini – per sapere chi è nella struttura e chi no”. “Nessuno ha un obbligo”, dice il direttore. Come quella collega di cui tutti raccontano. Una ricercatrice che, con regolare certificato medico, doveva uscire dieci minuti prima dell’orario di chiusura una volta alla settimana, per alcune visite mediche. Al momento del rinnovo per lei la borsa è stata tagliata: tre mesi anziché un anno. Perché all’istituto funziona così: continui permessi da far firmare ai capi per entrate, uscite o malattie; nessuna flessibilità sugli orari, nemmeno per i pendolari; l’obbligo di prendere le ferie ad agosto, quando l’istituto chiude e c’è meno lavoro. Regole, per altro, tramandate oralmente o poco più. “Non esiste nulla di scritto – racconta un borsista -, le comunicazioni ci vengono date solo via email”.

“Siamo divisi in laboratori e unità, con un diretto superiore e faccio quello che mi dice il mio capo”, racconta un altro ricercatore. Non proprio quello che gli era stato prospettato quando si è iscritto a uno dei diversi corsi che danno accesso alla borsa del ‘Mario Negri’. Come quello organizzato con la regione Lombardia, della durata di otto mesi – da ottobre a giugno – per tre anni. “Che poi al centro viene spalmata su 12 mesi”, continua il borsista. Dopo la scuola, che per Garattini serve ad “apprendere”, la situazione però non cambia. “Fossero solo tre anni potrei capirli – commenta un ricercatore -, ma io ormai lavoro qui da più di cinque anni”. E senza prospettive certe. “Qui è pieno di pensionabili e cariatidi che non si sa se vengano pagati o meno”, raccontano dal centro. “Una volta – continua un borsista – ho sentito uno dei capi che diceva: ‘Poverini, prendono troppo poco di pensione’ per giustificare la loro presenza”. E “io così sono costretto a stare ancora a casa con i miei – conclude – nonostante abbia trent’anni”. Anche perché per i borsisti sono previsti dei dormitori, ma per accedervi bisogna scalare 300 euro al mese alla loro busta paga da 750.

Il problema dal punto di vista legale, spiega Laratro, non è tanto la forma del foglio di carta firmato dai lavoratori – che li indica come borsisti -, ma la sostanza di come svolgono la loro giornata all’istituto. Tra capi, permessi e accesso ai laboratori, “la loro prestazione è continua – prosegue il legale -. Sono destinati a progetti che devono essere eseguiti in tempo e su cui devono relazionare”. Esattamente quello che fa un lavoratore assunto, con uno stipendio e dei contributi. E allora perché farlo? “Quello del ricercatore rientra tra i lavori ad alta vocazione – spiega Laratro -. Si accettano condizioni ignobili perché si crede in quello che si fa”. Nonostante venga “svalorizzato”. Tanto nel settore pubblico, quanto nel privato. “E’ vero, i cosiddetti baroni stanno all’università – conclude Laratro -, ma fuori è uguale”.

Brunetta la chiama innovazione, si chiama precarietà

Il ministro Brunetta (la minuscola non è casuale, ndr) ha colpito ancora: di fronte alle legittime richieste di confronto da parte dei precari della Pubblica Amministrazione di cui lui è Capo Indiscusso li apostrofa con l’infelice frase “Siete la parte peggiore dell’Italia”, offendendo così quei 10 milioni di italiani – in massima parte giovane – che lavorano precari e sfruttati nella maggior parte delle aziende private e pubbliche del Paese. Non contento rincara la dose e si lancia in altre affermazioni quali “Andate a lavorare all’ortomercato”, scavandosi da solo la fossa (politica, prima che qualcuno fraintenda) che su facebook prima ancora che sulle testate nazionali le persone hanno già cominciato a delimitare. “Sappiamo chi sono questi personaggi, ci stiamo informando su dove lavorano” ha tuonato nelle interviste di questi giorni, facendo intendere che lottare per i propri diritti è inaccettabile per chi ci precarizza e che il dissenso non è una forma di libertà contemplata dall’attuale maggioranza (e non solo). Non serve dire che i precari e le precarie di tutta Italia – e speriamo tutti coloro che hanno ancora a cuore la democrazia in cui vivono – non tollereranno alcuna forma di intimidazione e di ritorsione nei confronti di chi non si arrende a vivere una vita di merda.

“Oggi durante il Convegno Nazionale dell’Innovazione svoltosi presso il Macro di Testaccio, verso le ore 16 dopo il discorso di apertura del Ministro Brunetta , abbiamo aperto uno striscione con la scritta “Si scrive innovazione, si legge precarietà”. Siamo gli in-dipendenti precari per la PA, esprimiamo le varie figure professionali precarizzate degli enti parastatali: ItaliaLavoro , Formez, Sviluppo Lazio.”

da indipendenti.eu (clicca per leggere l’articolo completo)

I disoccupati over 40 si appellano a Tremonti Su Youtube, un video “per non essere scarti”

Il Fatto Quotidiano21 maggio 2011

Troppo vecchi per lavorare, troppo giovani per la pensione. In rete mandano un messaggio di denuncia al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: “Vogliamo dirle che noi, onorevole, noi espulsi dal lavoro , da questa crisi non siamo ancora usciti”. Cinque storie in quattro minuti di “disoccupati maturi”

In fondo dicono la stessa cosa: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e cinque disoccupati over40 che si sfogano in un video su Youtube che in pochi giorni è stato visto da 12mila persone. Il capo dello Stato ieri ha detto: “Oggi più che mai occorre un diritto del lavoro inclusivo ed equo”. Cioè leggi che rendano il mercato del lavoro “attento alla tutela dei diritti della parte più debole contrattualmente e alla riaffermazione rigorosa dei relativi doveri”.

Nel video di 4 minuti su Youtube dal titolo “Non siamo scarti”, Marco Sanbruna, 46 anni, Dilva Giannelli, 58 anni, Fedele Sposato, 63 anni, Nicola Di Natale, 57 anni, Giovanni Laratta, 54 anni, si appellano al ministro dell’Economia Giulio Tremonti: “Vogliamo dirle che noi, onorevole Tremonti, noi espulsi dal lavoro quando avevamo già compiuto i 40 anni, da questa crisi non siamo ancora usciti”.

A promuovere l’iniziativa è l’associazione Atdal, per la tutela dei diritti dei lavoratori over 40. Armando Rinaldi racconta com’è nata: “Sono un ex dirigente della Philips ora in pensione. Mi hanno buttato fuori a 51 anni, nel 1999, quando mi mancavano cinque anni alla pensione, quindi ho dovuto lavorare come free lance”. In quei cinque anni prova a scalfire la solitudine che prova chi è nella sua situazione: “So che può sembrare incredibile, ma è andata così. Compro cinque o sei giornali al giorno, leggo sempre le rubriche delle lettere dei lettori. Così ho iniziato a scrivere a tutti quelli che raccontavano situazioni analoghe alla mia, in un anno ho messo insieme 3-400 contatti a livello nazionale. Poi è nata l’associazione, nel 2002”. Vi partecipano “disoccupati maturi”, come vengono pudicamente definiti, con storie come quelle dei cinque protagonisti del video. Persone come Dilva Giannelli, 58 anni, pubblicitaria vittima di un “tagliatore di teste aziendale” che dieci anni fa viene convinta ad acettare una buonuscita, soltanto per poi dover aprire una partita Iva e mettersi in competizione con giovani precari a 750 euro al mese. Nicola Di Natale ha 57 anni e lo sguardo triste di chi si è trovato in mobilità con la promessa di ritrovare il suo posto di autista in una multinazionale milanese. L’azienda si è ripresa ma non ha ripreso lui: “T’è capì i furbacchioni?”, commenta in milanese. Unica prospettiva realistica: aspettare la fine di ogni ammortizzatore sociale e scoprirsi povero. Peggio perfino dei “working poor”, i lavoratori con salari da fame, la categoria che più appassiona oggi i sociologi.

I “disoccupati maturi” sono tanti: secondo l’Istata 512 mila tra i 35 e i 44 anni, 327 mila tra i 45 e 54 anni, altri 100 mila tra i 54 e i 65. Senza contare gli scoraggiati che non cercano più lavoro e i cassintegrati che sono spesso disoccupati mascherati. Ma i loro sono drammi individuali, che faticano a trovare una narrazione comune. “Mi piacerebbe abbracciarli a uno a uno e urlare loro «non permettete a nessuno di uccidere i vostri sogni», ma le mie sono solo parole increspate da un’emozione”, scriveva giovedì Massimo Gramellini su La Stampa. Su Youtube si accumulano le storie, nei commenti al video. Un certo Marco scrive: “Vi invito a incanalare le energie verso l’impegno per contrastare l’assurdità di questo mondo del lavoro che ci vuole escludere. Scegliete voi la forma: impegno sindacale, partitico, associazionismo. Ma non rassegnatevi a essere scarti”. Si attende la risposta del ministro Tremonti.