Il reddito promesso, il reddito frainteso. Brevi note sulla proposta di legge S1481 a firma Ichino + altri

di Luca Santini

ABSTRACT

Riflessioni sulla proposta Ichino della riforma del mercato del lavoro e la questione del reddito garantito.

La strada imboccata con decisione dall’Esecutivo Monti verso la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali non mancherà a breve di tradursi in proposte e articolati di legge concretamente valutabili. Ad oggi possiamo confrontarci con semplici dichiarazioni alla stampa, allusioni in trasmissioni televisive, generici programmi di riforma. La concentrazione del dibattito sul “superamento” della tutela reale prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, nonché la forte esposizione mediatica recentemente rafforzata del Senatore PD Pietro Ichino, lascerebbero però pensare che la vera bozza legislativa allo studio del Governo sia modellata sulla proposta di legge n. 1481 depositata in Senato (a firma Ichino + altri),  intitolata “disposizioni per il superamento del dualismo del mercato del lavoro, la promozione del lavoro stabile in strutture produttive flessibili e la garanzia di pari opportunità nel lavoro per le nuove generazioni”.

Una riflessione un poco più ravvicinata su questo disegno di riforma sarà quindi utile per contribuire criticamente allo sviluppo del dibattito. La decisione del Governo di intervenire sulla materia spinosa e magmatica del mercato del lavoro non può giustificare, infatti, una levata di scudi a difesa dell’esistente. Occorre prendere atto la via su cui lo sviluppo dei rapporti sociali pare già incamminato condurrà naturaliter all’esaurimento delle garanzie consolidate del diritto del lavoro (e in primis della tutela reale contro il licenziamento), nonché anche al progressivo estinguersi della tutela pensionistica come forma specifica di assicurazione contro la vecchiaia. Rispetto alla condizione sociale di milioni di lavoratori (non più così giovani, ormai) dispersi in micro-imprese in appalto, cooperative, datori di lavoro capaci di offrire soltanto contratti a termine o a progetto, non ha più un significato concreto il richiamo all’articolo 18; e lo stesso può già dirsi per la previdenza pubblica, resa incapace dalle riforme degli ultimi anni di fungere da garanzia tangibile per la dignità della persona nella fase di riposo dalla vita lavorativa. Non c’è spazio dunque per la difesa dell’esistente, c’è un bisogno pressante, al contrario, di nuovi diritti e nuove tutele. Da questo punto di vista il ddl menzionato, sicura fonte di ispirazione per l’azione del Governo, merita di essere valutato attentamente quanto meno per l’effetto di rottura dall’inerzia che promette di produrre.

Il puto cruciale della nuova disciplina proposta sta nel superamento dei vincoli alla cosiddetta flessibilità in uscita (licenziamenti più “facili”, dunque), in cambio di una sostanziosa indennità di disoccupazione della durata di quattro anni, pari al 90% dell’ultimo salario percepito nel corso del primo anno, e poi a scalare pari all’80, al 70 e al 60 per cento negli anni successivi al primo. Inoltre il lavoratore licenziato gode al momento dell’interruzione del rapporto lavorativo di una buonuscita una tantum pari a una mensilità di salario per ogni anno di anzianità aziendale. Questo nuovo regime caratterizzato da ammortizzatori sociali sensibilmente più generosi di quelli oggi disponibili si applica solo ai lavoratori che siano riusciti a superare un anno di anzianità di servizio all’interno di una stessa azienda. In cambio di questa maggiore generosità nell’accesso al sussidio il disoccupato deve acconsentire a stipulare un accordo di ricollocazione con una apposita agenzia privata, che gli eroga il sussidio (anche con proprie risorse, aggiuntivamente alle risorse provenienti dal sussidio oggi a carico dell’INPS) e che ha un interesse economico a situare velocemente il lavoratore in un nuovo contesto produttivo.

Su questo disegno di riforma, qui velocemente tratteggiato, si rassegnano di seguito alcune brevi osservazioni.

1)     Il progetto di legge in oggetto mira ad introdurre una semplificazione del mercato del lavoro mediante una drastica riduzione delle forme contrattuali esistenti. Sia le forme contrattuali subordinate che quelle parasubordinate dovrebbero confluire nel nuovo “contratto di transizione” destinato a diventare forma contrattuale tendenzialmente unica per tutta la popolazione attiva e in posizione economicamente dipendente. Resterebbero in vigore soltanto i contratti a termine (ma ridotti nel numero perché ricondotti alla presenza di esigenze produttive realmente temporanee), alcune forme di lavoro interinale e forse l’apprendistato. La proposta di un “contratto unico” è stata avanzata anche da altri commentatori (primi fra tutti Boeri e Garibaldi) ed apre una prospettiva interessante e da discutere in modo costruttivo. Il rischio sotteso a simili progetti è quello di una eccessiva astrazione dai reali rapporti produttivi, poiché se è vero che negli ultimi anni il legislatore si è spinto decisamente troppo in là nell’invenzione di tipologie contrattuali sempre nuove, è vero anche che imporre a forza un unico modello contrattuale a un mercato del lavoro che comunque esprime un’esigenza di flessibilità potrebbe non essere rispondente alle reali esigenze dei produttori. Forse perché consapevole di questi rischi la proposta Ichino (diversamente da quella Boeri-Garibaldi che impone il “contratto unico” ope legis a partire da una certa data e per le nuove assunzioni) lascia alla contrattazione collettiva (e individuale) la scelta per il nuovo “contratto di transizione”, scommettendo sulla sua convenienza per imprese e lavoratori.

2)     Il disegno di riforma prevede dunque un progressivo ampliamento del nuovo strumento contrattuale, una sua applicazione a macchia d’olio, fino all’integrale sostituzione di tutte le forme contrattuali vigenti. Anche qui si vede una certa astrattezza di impostazione, che non tiene conto delle specificità talora spiccate dei vari contesti produttivi. In particolare non è ben chiara la convenienza per le piccole imprese (sotto i 15 dipendenti) a entrare nel nuovo regime. Se infatti per le grandi imprese l’interesse sta nel superamento della tutela reale contro i licenziamenti prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, lo stesso non può dirsi per le unità produttive più piccole. Il ddl prevede infatti, a vantaggio delle sole imprese sotto i 15 dipendenti, il versamento di un contributo statale in favore dell’agenzia di ricollocamento – vi è dunque un trasferimento di risorse pubbliche per incentivare  l’attivazione di uno speciale rapporto contrattuale di natura privatistica tra il dipendente licenziato e l’agenzia di ricollocamento. Ma pur con questo incentivo non è per nulla certo che la piccola impresa trovi conveniente abbandonare il regime esistente fondato su contratti a termine, forme parasubordinate, precariato. E’ dunque assai probabile che il nuovo “contratto di transizione” non riesca a raggiungere la semplificazione sperata, ma che al contrario finisca per un creare un’ennesima figura contrattuale – modulata sugli interessi della grande impresa – da affiancare a tutte le altre oggi esistenti.

3)     Il proposito della riforma è quello di superare il dualismo del mercato del lavoro, caratterizzato – secondo quanto si dice nella relazione introduttiva – da una vera e propria apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori precari che portano da soli tutto il peso della flessibilità. La risposta che si tenta di dare a questa condizione sta nella creazione di una forma di tutela uniforme, che si colloca a un livello “mediano” rispetto alla polarizzazione oggi esistente. Rispetto a questa analisi, ancora una volta, è forse il caso di delineare un’immagine più realistica della realtà del lavoro nel nostro paese, che non è tanto caratterizzato da un dualismo, quanto piuttosto da una moltiplicazione indefinita delle posizioni, fino quasi a un’individualizzazione della situazione di ciascuno. E anche qui: se in parte vi è stata una cedevolezza eccessiva da parte del legislatore alle esigenze dell’impresa, in parte questa situazione è anche lo specchio fedele di una produzione che si è fatta “liquida”, non catalogabile, irriducibile a macro schemi unificanti. Non di dualizzazione, dunque, si deve parlare, piuttosto di propagazione indeterminata di rapporti contrattuali sempre diversi e cangianti (forse la condizione singolare di ciascuno è ancora più ricca rispetto alla pur abbondantissima offerta legislativa di ben 44 forme contrattuali ammesse). Mettere un programmatore di computer nella stessa casella del fattorino ed entrambi loro in quella della colf o dell’operaio edile rischia di essere un’iniziativa velleitaria e disperata. Siamo dunque destinati alla balcanizzazione delle tutele e delle società? Niente affatto, il punto sta nell’accordare un livello universale di tutele che faccia da contraltare alla molteplicità delle esperienze contrattuali individuali. Con alcune garanzie forti, valide per tutti e introdotte per legge (e non con la sempre più fragile contrattazione collettiva), si potrebbe guardare alla segmentazione esistente con meno allarme, perché sarebbero esclusi alla radice i rischi di dualizzazione.

4)     Le tutele universalistiche da introdurre per legge sono la previsione di un salario minimo orario (che il ddl S1481 non contempla, ma che è oggetto di altro ddl degli stessi proponenti), di sostegni formativi e in generale welfaristici per i lavoratori in fase di transizione occupazionale, di una tutela compiuta ed efficace del reddito in tutte le fasi della vita produttiva e non. Solo quando sarà realizzato questo obiettivo di “dare forza” al cittadino produttivo anche fuori e oltre la sfera lavorativa, si potrà dire superata la condizione di precarietà esistenziale che oggi affligge gran parte della popolazione più o meno giovane. Occorre insomma rendere garantito per il lavoratore, anche fuori dal rapporto contrattuale con l’impresa, un livello minimo e intangibile di diritti, così da portarlo a un livello di sostanziale parità con l’imprenditore nel momento della contrattazione delle condizioni di lavoro (e senza più timori, a questo punto, per la fioritura esasperata di modelli contrattuali diversi). Un incontro finalmente alla pari tra domanda e offerta di lavoro potrebbe dare luogo a dinamiche sociali fortemente innovative, capaci di coniugare le esigenze di flessibilità delle imprese con le incomprimibili (e rigide) esigenze vitali dei cittadini lavoratori.

5)     Il ddl in questione, occorre dirlo, è totalmente refrattario rispetto a questo nuovo e urgente obiettivo di crescita civile e sociale. Nonostante il richiamo alla flexicurity scandinava, la riforma è saldamente ancorata alla concezione – prevalentemente diffusa nei paesi anglosassoni – del welfare to work, che viene peraltro proposta in una forma coercitiva raramente riscontrabile nei paesi europei. Siamo qui assai distanti da quell’ipotesi patrocinata dai giuslavoristi più avvertiti (il più eminente dei quali è forse Alain Supiot, ma qui da noi si veda pure Massimo Paci o anche Massimo D’Antona) di rispondere alla crisi del lavoro, andando “al di là del lavoro”, cioè fornendo riconoscimento e garanzie alle attività oggi considerate extramercantili ed extralavorative. Al contrario la proposta in commento mira a stringere i vincoli sul lavoro mediante una più intensa mercificazione e  un più veloce turnover della forza lavoro da un settore all’altro o da un impiego all’altro. In cambio di una relativa sicurezza in termini di reddito e in termini sociali, il lavoratore si presta a una totale disponibilità nei confronti del datore di lavoro (che può licenziarlo senza giusta causa monetizzando la sua uscita dall’impresa) o dell’agenzia di ricollocamento (che può a sua volta allontanarlo se non viene accettata una proposta di impiego). Occorre infatti chiarire che l’agenzia di collocamento (pur avocando a sé la funzione finora di natura pubblicistica svolta dai Centri per l’Impiego) agisce con strumenti senz’altro privatistici ed è  orientata al profitto (prima riesce a ricollocare il lavoratore e più guadagna); il rapporto che la lega al lavoratore licenziato è di diritto privato, esercita su di lui un potere direttivo e può licenziarlo a sua volta se il lavoratore non si mostra abbastanza disponibile. Non è preso in considerazione nel progetto di legge alcun parametro idoneo a definire la “congruità” della proposta di impiego offerta al lavoratore dall’agenzia (anche se su questo aspetto non è da escludere lo svilupparsi di una contrattazione collettiva di un certo interesse), e ciò perché se il lavoratore lo desidera può sottrarsi dal rapporto che lo lega con l’agenzia (e in tal caso, se ne ha diritto, continuerebbe a percepire il sussidio di disoccupazione pubblico). L’effetto finale della riforma sarebbe però di fatto quello di consegnare anche i sussidi esistenti (magri certo, ma pur sempre a carattere pubblico) nelle mani dell’agenzia privata. Di fatto, anche se il “contratto di transizione” prevede tutele crescenti al protrarsi del rapporto, è facile ipotizzare un uso strumentale e distorto nel nuovo potere di licenziamento offerto alle imprese, che risulterebbero incentivate a modificare continuamente la composizione della forza lavoro per eludere i maggiori oneri conseguenti all’allungamento del periodo di presenza del lavoratore all’interno dell’azienda. Non sembra peregrina l’eventualità di una strategia aziendale improntata a una gestione “duale” della manodopera, con un nucleo di lavoratori fissi e di fatto inamovibili, da affiancare a un segmento in continua fuoriuscita dopo brevi esperienze occupazionali.

6)     Comprensibilmente in questo disegno non c’è spazio per un’idea esigente di reddito minimo – e questo non perché, banalmente, un tale proposito sarebbe fuori tema rispetto all’oggetto specifico del ddl in questione. Il tema del reddito minimo come diritto soggettivo (e in generale quello dei diritti sociali di cittadinanza) non c’è perché scardinerebbe tutta la filosofia dell’intervento: se il disoccupato potesse svicolarsi dal rapporto contrattuale con l’agenzia e transitare in un sistema di garanzia pubblico più liberale e adeguatamente generoso, non vi sarebbero margini plausibili per l’accettazione e la diffusione del “contratto di transizione”.

In definitiva l’elemento di criticità che più vistosamente emerge dalla lettura della proposta risiede nel feticcio della ricollocazione a tutti i costi,  rapida ed efficiente del lavoratore disoccupato, come se la mera introduzione di incentivi economici  e di criteri d’azione imprenditoriali in luogo di quelli pubblicistici potesse da sola tenere luogo a una politica industriale degna di questo nome. La risposta alla crisi produttiva e alla conseguente moria di posti lavoro sta dunque nella mera attivazione, su un piano volontaristico, dell’attitudine del lavoratore a rendersi disponibile a nuove esperienze formative e/o  di impiego. Si dovrebbe vedere abbastanza chiaramente l’insufficienza di tale impostazione. Di fronte alle minacce di una povertà di massa, esposti ai venti di una crisi galoppante, nella spirale di provvedimenti che conducono allo smantellamento della tutela pensionistica, la prima e irrinunciabile esigenza per la preservazione dei nostri sistemi sociali sta nella garanzia universalistica, di base, tendenzialmente incondizionata dei mezzi di esistenza. Adempiuta questa assoluta priorità si potrà affrontare forse più serenamente il capitolo della riforma del mercato del lavoro.

 

 

thnx: http://www.bin-italia.org/article.php?id=1625

Reddito, diritto al minimo

lettera43.it – 03 Dicembre 2011

La proposta Fornero costerebbe 8 miliardi.

Reddito minimo garantito. Le tre paroline magiche sono risuonate nella bocca del ministro del Welfare, Elsa Fornero, che ha deciso di dare una speranza agli italiani, ormai consapevoli che il governo più che riempire le loro tasche le svuoterà. Davanti agli entusiasmi, Fornero ha però precisato che la sua è una «preferenza personale che non impegna il programma del governo». Per ora comunque la proposta è stata fatta. E potrebbe essere rivoluzionaria.

UN DIRITTO PER LA COMMISSIONE EUROPEA. Anche solo per il fatto che l’Italia è l’unico Paese insieme con Grecia e Ungheria a non avere questa misura. Nonostante fin dal 1992 la Commissione europea abbia adottato una risoluzione (n. 441) in cui è stato definito il reddito minimo garantito (la disponibilità delle risorse minime necessarie per vivere una vita libera e dignitosa) come un diritto sociale fondamentale. E abbia esortato gli Stati membri a istituire un quadro giuridico che garantisca questo diritto.
Il Parlamento europeo ha più volte sottolineato l’urgenza che tutti gli Stati membri introducano schemi di garanzia del reddito minimo (detto anche reddito di cittadinanza, reddito di esistenza, renta minima, basic income), per coloro che sono a rischio di esclusione sociale: giovani in attesa di prima occupazione, disoccupati e persone in condizione di marginalità, attribuendo a ognuno almeno il 60% del reddito medio riferito a ciascun Paese (oltre a misure aggiuntive come aiuti o tariffazioni agevolate per gas, luce, affitti e trasporti o per spese straordinarie e urgenti).

Dai 613 euro del Belgio ai 1.044 del Lussemburgo

Nei altri Paesi europei è applicata a tutti i disoccupati che hanno compiuto i 16 anni (l’unica eccezione è rappresentata dalla Francia, per la quale l’età minima per il diritto al reddito è 25 anni). Esistono inoltre integrazioni per chi svolge un lavoro il cui salario risulta inferiore ai parametri minimi per la conduzione di un’esistenza al di fuori della povertà, come per esempio i Paesi scandinavi o il Lussemburgo.

Le cifre base variano di Paese in Paese: circa 613 euro in Belgio, 425 in Francia, 645 in Irlanda, fino ai 1.044 del Lussemburgo.
BASIC INCOME NETWORK. In Italia, per ora, non c’è. Ma a studiare, progettare e promuovere interventi indirizzati a sostenere l’introduzione di un reddito garantito sono i sociologi, gli economisti, i filosofi, i giuristi e i ricercatori del Basic income network Italia, che da anni definiscono la misura «imprescindibile per costringere gli Stati e gli organi dell’Unione europea a una gestione della crisi economica internazionale improntata all’equità e alla giustizia sociale».
Tra questi c’è Andrea Fumagalli, docente di Economia politica all’università di Pavia, che raggiunto da Lettera43.it ha definito la proposta della Fornero un «grande passo avanti», rispetto soprattutto al silenzio assordante che in questi anni è risuonato nella stanze del governo.

Il ritardo italiano a causa del boicottaggio dei sindacati

«Finora non se n’è mai parlato perché non c’è mai stata la volontà politica di affrontare il problema», commenta l’economista. Nonostante dal punto di vista economico ci siano stati molti studi che hanno dimostrato la validità della misura, «si preferisce ancora una struttura di ammortizzatori sociali molto differenziata che viene gestita a livello corporativo».

L’OBBLIGO DI INTERMEDIAZIONE POLITICA. Gli ammortizzatori infatti, dai sussidi di disoccupazione, alle liste per ottenere l’indennità di mobilità e fino alle varie forme di cassa integrazione, «richiedono una intermediazione politica, invece il reddito minimo garantito no».
Il timore dei sindacati, degli enti bilaterali e territoriali «di perdere il loro potere di veto nel determinare l’accesso agli ammortizzatori» ha quindi determinato questo ritardo rispetto al resto d’Europa. Anche se negli ultimi tempi una parte del sindacato, come la Flc-Cgil (Federazione lavoratori della conoscenza) o i metalmeccanici della Fiom si sono espressi a favore, resta il fatto che la misura è stata per anni boicottata per interessi di parte, che poco hanno a che vedere con il bene dei lavoratori.

Basterebbero 8 miliardi per attuare la misura

Non si spiega altrimenti il ritardo su una misura che garantirebbe a più persone un reddito minimo. Secondo Fumagalli le attuali forme di sostegno al reddito in caso di perdita involontaria del posto di lavoro riescono infatti «a coprire meno del 25% delle persone che si trovano in questa situazione e quasi tutto il mondo del precariato ne è escluso».
UNA POLITICA DI ASSISTENZA AL REDDITO. Un limite a cui si aggiunge che in Italia manca qualsiasi distinzione tra politiche di previdenza e di assistenza al reddito. «Queste ultime dovrebbero essere invece finanziate con la fiscalità generale dello Stato anziché essere parzialmente coperte con il bilancio dell’Inps», osserva Fumagalli.
Inoltre molti hanno sempre rifiutato l’idea di elargire un reddito minimo garantito per una questione di cassa. Ma in realtà quanto costerebbe una misura di questo genere?
GARANTIRE IL MINIMO DI 600 EURO AL MESE. Nel numero uno della rivista Quaderni di San Precario gli economisti hanno fatto una stima secondo la quale arrivare a garantire a tutti i residenti in Italia un livello di reddito pari alla soglia di povertà relativa (che è di circa 600 euro al mese, con variazioni a secondo della regione), richiederebbe al massimo 25 miliardi di euro.
«La misura però», sottolinea Fumagalli, «sostituirebbe una serie di aiuti frazionati che già lo Stato stanzia per una cifra di circa 15 miliardi». Quindi facendo i conti, il costo netto sarebbe «di 7-8 miliardi di euro, una cifra abbastanza abbordabile».

Come funziona negli altri Paesi

Finora nei Paesi europei la forma di intervento di reddito minimo è di tipo condizionato, «ovvero chi accede a queste misure deve in qualche modo contro ricambiare o attraverso l’obbligo di accettazione di una forma di lavoro, qualunque essa sia, o accettando percorsi di formazione per far sì che la sua condizione precaria raggiunga livelli di stabilità», racconta Fumagalli, «Un modello a cui si ispirerà anche Fornero».

Ma l’economista suggerisce invece un modello incondizionato. Secondo Fumagalli bisogna infatti tener presente «che oggi viviamo in un mondo in cui la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro è sempre più difficile da definire anche quando si ha un contratto».
LE ATTIVITÀ PRECARIE NON REMUNERATE. Ci sono poi tutta una serie di attività soprattutto precarie, come lo stage, che addirittura non vengono remunerate. «Prestazioni produttive di valore che non sono certificate come attività lavorative e questo è un problema». Ecco perché per Fumagalli le forme di garanzie di reddito dovrebbero essere non condizionate per evitare che non venga riconosciuta quella capacità produttiva eccedente.
In Francia, per esempio, «il reddito minimo garantito viene dato a prescindere dalla condizione professionale, non solo ai disoccupati», spiega, «ma deve essere accompagnata dal salario minimo per evitare l’effetto dumping», spiega Fumagalli.
FISSARE UN MINIMO SALARIALE ORARIO. Un modello, quello francese, che l’Italia potrebbe prendere a esempio, «serve però un intervento legislativo che stabilisca che un’ora di lavoro non può essere pagata meno di un certo tanto». Il rischio è infatti che chi ha un reddito minimo ma non un salario minimo, diventi vittima del datore di lavoro che può abbassare il costo della prestazione richiesta approfittando del fatto che il lavoratore ha già il reddito minimo dato dallo Stato.
In Italia però questa misura non esiste «per l’opposizione dei sindacati che hanno sempre sostenuto che se venisse fissato un salario minimo questo toglierebbe importanza ai contratti collettivi di lavoro», spiega Fumagalli.
Ma questo aveva un senso quando i contratti collettivi coprivano la stragrande maggioranza delle prestazioni lavorative e decidevano quindi il salario minimo, «ma visto che oggi abbiamo la metà della forza lavoro che non è contrattualizzata, specie nel terziario, non ha senso».

Meglio studiare un modello di “secur flexibility” anzichè di “flexsecurity”

San Precario imperversa in Rete. Dal 2004 il santo patrono di sfrattati, poveri, sottooccupati, sfruttati, ricattati, Co.Co.Co, assunti non in regola e dipendenti a termine è diventato il punto di riferimento per molti lavoratori.San Precario imperversa in Rete. Dal 2004 il santo patrono di sfrattati, poveri, sottooccupati, sfruttati, ricattati, Co.Co.Co, assunti non in regola e dipendenti a termine è diventato il punto di riferimento per molti lavoratori.

Infine se mai la misura sarà inserita nel programma del ministero del Lavoro, bisognerà riflettere sul fatto che sarà controbilanciata da interventi di ulteriore flessibilità del mercato del lavoro attraverso la logica della flexsecurity «che prevede una prima fase di flessibilizzazione del mercato del lavoro in modo da aumentare la competitività delle aziende e generare quel reddito necessario per finanziare la sicurezza sociale. «Un meccanismo che ha funzionato in alcuni a Paesi come la Danimarca dove però c’è un contesto produttivo diverso».
PRIMA LA SICUREZZA, POI LA FLESSIBILITÀ. In Italia sarebbe invece più utile parlare di «secur flexibility», dice Fumgallli, ovvero flessibilizzare il mercato del lavoro solo dopo aver garantito la sicurezza sociale attraverso forme di reddito minimo. Un processo che metterebbe in moto un circolo virtuoso, «Invece in Italia negli ultimi 20 anni si sono fatti processi di flessibilizzazione rimandando a dopo il tema della sicurezza sociale e la riforma degli ammortizzatori».
La scusa è sempre stata la stessa: mancano i soldi, c’è il debito pubblico, servono politiche di austerity. «Così abbiamo creato solo un circolo vizioso per cui la produttività viene messa a rischio da un eccesso di precarizzazione del lavoro e questo ha minato anche la capacità di accumulazione, ritorcendosi contro lo stesso capitalismo».

 

di Antonietta Demurtas

La farsa dell’emergenza economica: parte II

1. A leggere i commenti sui giornali, a partire da quello di Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera del 16 luglio, il dibattito politico ed economico verte esclusivamente sul fatto se la manovra finanziaria varata in questi giorni sia credibile per i mercati e, quindi, sufficiente. Solo in seconda battuta, qualcuno interviene sull’entità e sul merito dei sacrifici richiesti, ma sempre in un’ottica di necessità inevitabile per evitare il peggio. Due sono i protagonisti indiscussi che animano il dibattito: i mercati finanziari e il rischio di default.
I primi vengono considerati come agenti economici neutri, oggettivamente e quasi metafisicamente definiti, giudici crudeli e inflessibili ma imparziali della credibilità, dell’efficienza e della reputazione di uno stato sempre meno sovrano. Le società di rating ne rappresentano le preferenze, anch’esse imparziali e oggettive. I mercati finanziari, in fondo, coincidono con il senso comune, l’opinione pubblica generalizzata, non influenzabile da decisioni individuali.
Il secondo protagonista è il default (fallimento), presentato come il peggiore di tutti i mali, causa di ogni possibile iattura nel futuro. Di converso, la riduzione del deficit pubblico e quindi l’eliminazione del rischio di default viene visto come condizione indispensabile per la crescita economica e della ricchezza, in grado di favorire quelle magnifiche sorti progressive che ci renderanno finalmente felici e contenti.
Tali costruzioni ideologiche sono ben sedimentate a livello sociale e di intellighenzia e costituiscono una delle basi, comune sia a destra che a sinistra, su cui si fonda il meccanismo biopolitico dello sfruttamento contemporaneo della cooperazione sociale. Ciò che distingue la sinistra dalla destra è al limite il metodo per consentire tale sfruttamento, a partire, però,  dalla comune negazione della sua esistenza e di qualsiasi conflitto di classe che ne potrebbe derivare.
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Wikistrike

Il Wikistrike è un’enciclopedia creata dalla nostra intelligenza collettiva per mettere a disposizione di tutte/i uno strumento contro la precarietà e al servizio dello sciopero precario. A Roma agli Stati Generali della Precarietà cerca il libretto con i lemmi sulla precarietà, sui modi per fronteggiarla, sulle sue cause e sulle sue possibili soluzioni. È un testo che gioca con il nome di Wikipedia perché assomiglia a una minienciclopedia ma soprattutto perché è basato sul metodo wiki. Il Wikistrike è stato creato collettivamente da chi vive nella precarietà e vuole fare agitazione nella precarietà. Ed è aperto: dopo gli Stati Generali vorremmo che l’intelligenza e i saperi dei precari continuassero ad aggiornare, pensare, aggiungere, rivoltare come un calzino le voci che lo compongono: Precarietà, Silvio Berlusconi, Welfare, Cash & Crash, Reddito, Ricatto e consenso, Cospirazione, Media sociali, Sciopero precario, Crisi, Subvertising, Migranti, San Precario.

Perché come dice il saggio: “Un mondo popolato da precari/e è il mondo che sognano le imprese; un mondo creato e pensato dai precari è il loro peggiore incubo.”

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S.G.P. 2.0 Report: “I Quaderni di San Precario / I Quaderni del Reddito del BIN”

Sabato pomeriggio si è svolto il workshop di presentazione dei Quaderni di San Precario> e dei Quaderni per il Reddito a cura del Bin-Italia (Basic Income Organization).

San Precario non è solo ironia, non è solo apparizioni ed azioni, non è solo MayDay – il 1° Maggio precario – è anche elaborazione, analisi, visione, proposte per “contribuire alla necessaria e non rinviabile rivoluzione copernicana” per “rovesciare l’interpretazione sottomessa dei codici, delle leggi, del ciclo produttivo, della composizione di classe” rivendicando “con orgoglio nella pratica come nell’elaborazione teorica un punto di vista precario”.

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