Cartoline dalla Cina #11

Un paese, due motori e due velocità

«Chi ha fatto conoscere al mondo intero l’esistenza della lista di parole on line proibite dal Governo cinese? Gli utenti internet cinesi, nessun altro». E’ la chiusura di un articolo di Yasheng Huang professore di economia politica al MIT, pubblicato qualche settimana fa dal Wall Street Journal. Il punto di partenza dell’intera riflessione del professore, già autore di Capitalismo con caratteristiche cinesi: impresa e stato era stata un’intervista concessa al medesimo quotidiano Usa da Sergey Brin, uno dei fondatori di Google, poco dopo la decisione dell’azienda Usa di abbandonare la Cina e muoversi a Hong Kong. Nell’intervista Brin spiegava le ragioni della scelta, puntualizzando due elementi: il fastidio provato di fronte ai metodi cinesi che a Brin, giunto negli States nel 1979 dalla Russia, ricordavano tanto il totalitarismo dell’Unione Sovietica, nonché il fatto che la soluzione Hong Kong, fosse stata suggerita, in modo indiretto, proprio da Pechino. I ragionamenti sviluppati sull’internet cinese sono partiti spesso da questa intervista del fondatore di Google.

In generale le reazioni degli intellettuali e dei bloggers cinesi allo strappo di Mountain View, possono essere distinte in tre posizioni ben precise: chi supporta Google, chi supporta la Cina e chi invece si pone sulla stessa lunghezza d’onda del professor Yasheng. Ovvero, quelli che ritengono che Google abbia perso una grande occasione, proprio nel momento in cui la censura cinese avrebbe potuto, anche se di poco, cambiare la propria intensità. Partiamo da qui: gli esempi portati da Yasheng sono rimbalzati su molti dei twitter o buzz dei più influenti commentatori del web cinese. «Rispetto al totale delle informazioni disponibili su Internet in Cina – scrive il professore – il numero di termini vietati è minuscolo, non importa quanto velocemente la lista si espande. Il China Internet Network Information Center, un sito web gestito dall’Accademia Cinese delle Scienze, ha specificato che l’importo totale delle informazioni digitali nell’internet cinese è aumentato di oltre il 40 per cento dal 2005. Il paese ha oltre 300 milioni di utenti di Internet e più di 700 milioni di abbonati di telefonia mobile. Si sfida la logica a immaginare di esercitare un controllo costante su una tale rete. Immaginate di provare a imporre un limite di velocità – diciamo 35 miglia all’ora – nel 1930 e nel 2010. Sicuramente ci sarebbero molte più infrazioni nel 2010, dopo tutto, ci sono più automobili con una velocità maggiore. Ma il più alto numero di violazioni significa che le autorità stanno intensificando il controllo del traffico? No, significa che la tecnologia che stanno cercando di controllare, è cambiata».

Un paese, due motori e due velocità (immagine: go.jpg)

«Chi ha fatto conoscere al mondo intero l’esistenza della lista di parole on line proibite dal Governo cinese? Gli utenti internet cinesi, nessun altro». E’ la chiusura di un articolo di Yasheng Huang professore di economia politica al MIT, pubblicato qualche settimana fa dal Wall Street Journal. Il punto di partenza dell’intera riflessione del professore, già autore di Capitalismo con caratteristiche cinesi: impresa e stato era stata un’intervista concessa al medesimo quotidiano Usa da Sergey Brin, uno dei fondatori di Google, poco dopo la decisione dell’azienda Usa di abbandonare la Cina e muoversi a Hong Kong. Nell’intervista Brin spiegava le ragioni della scelta, puntualizzando due elementi: il fastidio provato di fronte ai metodi cinesi che a Brin, giunto negli States nel 1979 dalla Russia, ricordavano tanto il totalitarismo dell’Unione Sovietica, nonché il fatto che la soluzione Hong Kong, fosse stata suggerita, in modo indiretto, proprio da Pechino. I ragionamenti sviluppati sull’internet cinese sono partiti spesso da questa intervista del fondatore di Google.

In generale le reazioni degli intellettuali e dei bloggers cinesi allo strappo di Mountain View, possono essere distinte in tre posizioni ben precise: chi supporta Google, chi supporta la Cina e chi invece si pone sulla stessa lunghezza d’onda del professor Yasheng. Ovvero, quelli che ritengono che Google abbia perso una grande occasione, proprio nel momento in cui la censura cinese avrebbe potuto, anche se di poco, cambiare la propria intensità. Partiamo da qui: gli esempi portati da Yasheng sono rimbalzati su molti dei twitter o buzz dei più influenti commentatori del web cinese. «Rispetto al totale delle informazioni disponibili su Internet in Cina – scrive il professore – il numero di termini vietati è minuscolo, non importa quanto velocemente la lista si espande. Il China Internet Network Information Center, un sito web gestito dall’Accademia Cinese delle Scienze, ha specificato che l’importo totale delle informazioni digitali nell’internet cinese è aumentato di oltre il 40 per cento dal 2005. Il paese ha oltre 300 milioni di utenti di Internet e più di 700 milioni di abbonati di telefonia mobile. Si sfida la logica a immaginare di esercitare un controllo costante su una tale rete. Immaginate di provare a imporre un limite di velocità – diciamo 35 miglia all’ora – nel 1930 e nel 2010. Sicuramente ci sarebbero molte più infrazioni nel 2010, dopo tutto, ci sono più automobili con una velocità maggiore. Ma il più alto numero di violazioni significa che le autorità stanno intensificando il controllo del traffico? No, significa che la tecnologia che stanno cercando di controllare, è cambiata».

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