Disoccupazione al 10%, o meglio al 20%

Settimana scorsa, con maggior o minor enfasi a seconda del diverso livello di sudditanza al governo Monti, numerosi sono stati i commenti dei quotidiani italiani relativi all’andamento del mercato del lavoro pubblicati dall’Istat.

Riguardo ad essi, due sono i principali elementi da segnalare: l’aumento del tasso di disoccupazione al 10,7% e il record raggiunto dalla disoccupazione giovanile, oggi pari al 35,1%. In un solo anno sono stati creati quasi 600.000 nuovi disoccupati. Si tratta di dati drammatici che evidenziano l’acuirsi della crisi e che non sorprendono, dal momento che nel corso dell’ultimo anno sono stati ben cinque i provvedimenti di austerity presi dai governi in carica, una manovra recessiva di quasi 100 miliardi di euro.

Eppure il governo e alcuni commentatori tengono a sottolineare che il dato italiano sulla disoccupazione risulta comunque inferiore della media Europea. Niente di più falso. Il nostro dato sulla disoccupazione è infatti di gran lunga sottostimato. Il suo calcolo si basa sulla classica tripartizione tra “inattivi”, “occupati” e “disoccupati” che appare del tutto inadeguata a cogliere l’attuale complessità del mercato del lavoro. La nozione di “occupato” e di “inattivo”, infatti, a fronte dei processi di precarizzazione e scomposizione delle figure lavorative, non è più univoca sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista economico-sociale. L’emergere di una molteplice gamma di contratti atipici con diverse forme di “para-occupazione”, pongono la necessità di ridefinire i confine tra “occupazione” e “disoccupazione”, così come tra “attivo” e “inattivo”.

Ad esempio, persone con contratti a chiamata o che svolgono prestazioni lavorative “fortemente” occasionali vengono considerati come occupati anche se lavorano un solo giorno al mese; oppure persone vengono classificate come inattive in base alla mancata ricerca di un’occupazione, seppur disponibili a lavorare (e quindi potenzialmente attive).

A tal fine, è necessario scomporre la figura degli inattivi, introducendo due nuove categorie: gli individui che non cercano attivamente un lavoro, ma sono disponibili a lavorare (categoria che possiamo definire “scoraggiati”); le persone che cercano lavoro ma non sono subito disponibili. La somma di questi due segmenti rappresenta le cosiddette “forze di lavoro potenziali”.

Gli individui che non cercano un lavoro – ovvero che non hanno svolto almeno un’azione di ricerca di lavoro nelle quattro settimane precedenti quella di riferimento dell’indagine – ma sono comunque disponibili a lavorare entro due settimane sono, secondo l’Istat, pari a fine 2011, a 2 milioni 897 mila, l’11,6% delle forze di lavoro.

Per un calcolo corretto della disoccupazione involontaria, tali persone dovrebbero essere annoverate tra i reali disoccupati. Le forze lavoro complessive, ovvero compreso dalle forze lavoro potenziali, risultano così a fine 2011, pari a 28,5 milioni (per un tasso di attività del 62,2% e non del 56%). La popolazione realmente disoccupata è invece pari alla somma dei disoccupati veri e propri e degli scoraggiati: oltre 5,5 milioni di individui. Ne consegue che il tasso effettivo di disoccupazione è pari al 19,3%, praticamente quasi il doppio di quello ufficialmente dichiarato. Se poi, si dovessero calcolare come disoccupati anche i lavoratori in Cassa Integrazione, il tasso effettivo di disoccupazione va oltre il 20%, in linea – non a caso – con quello di Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda, i paesi sottoposti alle più dure politiche di sacrifici.

In questa situazione allarmante, sono le nuove generazione ad essere più penalizzate, sia perché hanno meno probabilità di trovare lavoro (anche grazie alla buona idea della ministro Fornero di alzare l’età pensionabile), sia perché, quando lo trovano, esso è 9 volte su 10 precario. Si viene così a costituire una sorta di esercito industriale di riserva giovanile sia interno che esterno al mercato del lavoro che evidenzia l’esistenza di una vera e propria “trappola della precarietà”. Allo stato attuale delle cose, da essa si può solo uscire o emigrando o diventando Neet (giovane non in occupazione, in formazione e educazione), nuova e crescente figura sociale (ovvero i fannulloni o bamboccioni, secondo i benpensanti) che ha abbandonato ogni idea di futuro per vivere solo un presente fatto di sopravvivenza e lavoretti veri. Da qui bisognerà ripartire.

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