Il Rischio a chi non rischia

Il diritto del lavoro soffre di tre importanti contraddizioni e lacune, che da sempre si ripercuotono sulla classe produttiva più debole, ovvero con meno capacità reddituale, oltre che sulla collettività cui è affidato il compito di provvedere al sostentamento di quest’ultima in ipotesi di perdita del posto di lavoro.

Da un lato, vi è che il personale dirigente (preposto alla conduzione della azienda in cui operano) ed il personale operaio/impiegatizio, sebbene appartenenti alla stessa categoria contrattuale (quella dei lavoratori, spesso subordinati), sono assoggettati a parametri retributivi sproporzionati non solo in riferimento alla comparazione tra i valori da ciascuna categoria apportata alla vita e produttività dell’azienda (dirigente = operaio/impiegato), ma anche in riferimento all’effettivo valore di mercato in sé del dirigente apicale.

Dall’altro, vi è che, come insegnano i casi verificatisi negli ultimi anni (Cimoli, Romiti, Profumo, etc.), le retribuzioni degli stessi dirigenti apicali sono svincolate da un effettivo rischio e sono, in sostanza, previste come dovute a prescindere dalla effettiva produzione e produttività dell’azienda e, talvolta, a prescindere dalla stessa permanenza in vita dell’azienda interessata.

Da ultimo, vi è che tali compensi sono dagli stessi vertici aziendali percepiti non solo in ipotesi in cui l’azienda affronti un momento di crisi economico-produttiva idonea a renderne complessa e difficoltosa la stessa permanenza in vita, ma anche nonostante il fatto che nella maggior parte dei casi dette crisi sono tutt’altro che congiunturali e dovute a negligenza, imperizia, ovvero erronee scelte e strategie aziendali ascrivibili ai vertici medesimi.

Le deficienze strutturali di tale sistema sono di palese evidenza.

Se, infatti, il personale di vertice aziendale è trattato come normale categoria di lavoratori subordinati allorquando si pattuisce che il loro compenso, a prescindere dallo stato di salute dell’impresa che conducono, debba essere in ogni caso corrisposto (e ciò anche laddove l’azienda che conducono cessi di esistere per effetto di loro scelte o strategie errate), il rovescio della medaglia è che essi non sono trattati come normali lavoratori subordinati all’atto della pattuizione o corresponsione degli emolumenti, pari, talvolta, a 1.000 volte quelli previsti per le suddette diverse categorie di lavoratori (impiegatizie/operarie).

Con ciò distraendo, in sostanza, parte di denaro che ben potrebbe essere destinato al perseguimento di un interesse di carattere pubblico ed imperativo, vale a dire la garanzia, a favore di lavoratori con difficile ricollocabilità di mercato e già senza stipendio dignitoso e rispettoso dell’art. 36 della Costituzione, del dovuto sostegno reddituale post-perdita del posto di lavoro.

Quanto sopra con effetti illogici, prima ancora che disastrosi.

Ed infatti, in ipotesi di crisi (spesso dovuta ad errore del personale di vertice) si verifica:

  1. la perdita del lavoro e del reddito di classi di lavoratori senza il valore retributivo e di mercato del personale apicale;

  2. lo scarico dei costi del mantenimento del reddito (dato dagli ammortizzatori sociali) del suddetto personale in capo alla collettività;

  3. il mantenimento, ciononostante, del diritto alla corresponsione delle altissime retribuzioni dovute allo stesso personale apicale.

E’, pertanto, il caso di approcciare al problema non solo sulla base di principi già vigenti nel nostro ordinamento, secondo cui ogni soggetto che eserciti una attività pericolosa (e quella di condurre un’azienda lo è) deve essere obbligato a stipulare una assicurazione per danni che cagiona a terzi nell’esercizio di detta attività, ma anche sulla base dei tanto agognati e richiesti principi di mutualità e socialità quanto alla appartenenza alla comunità interessata (sacrifici per tutti..), tale per cui chi guadagna di più deve poter destinare parte dei suoi guadagni a garanzia di reddito delle classi disagiate o più esposte agli effettivi rischi di impresa.

Dunque, ogni manager deve stipulare un contratto di assicurazione che preveda, in caso di crisi aziendale, il pagamento della maggior parte (o di parte) del reddito da garantirsi a chi, per effetto di detta crisi, perde posto di lavoro, stipendio pieno e capacità/possibilità di concorrere alla cosa pubblica lavorando.

In tal modo, da un lato di pone sulle spalle di chi ha la effettiva capacità e possibilità di determinare la vota di una azienda (e dei posti di lavoro che ad essa accedono) l’effettivo rischio della crisi, ovvero di scelte inappropriate che spesso a tale crisi conducono, dall’altro si solleva il contribuente pubblico dall’equazione: ricavi all’impresa, i costi alla collettività.

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