L’unico precario buono è il precario muto

E’ il lontano 2007, un sacco di tempo fa, le nubi della crisi sono ancora distanti, nascoste oltre l’orizzonte, ma non è che si sta meglio.
E’ l’alba della settima MayDay, il Primo Maggio dei precari, che di anno in anno miete partecipazioni record, generando invidia e risentimento fra le molte “istituzioni della sinistra”.
Eh, sì, perchè questa manifestazione giovane, troppo allegra ed irriverente è un sassolone nella scarpa della politica. E’ fastidioso il volume con cui i precari declamano le loro  rivendicazioni, sono fastidiose le loro rivendicazioni, per dire infine, arrivando al succo, che sono fastidiosi gli stessi precari.
Se si limitassero a lamentarsi… ma no, anzi pretendono pure di prender parola.


E la parola dei precari genera il panico perchè ribalta completamente il quadro di riferimento, le categorie concettuali e infine, più importante, la gerarchia “naturale” fra rappresentati e rappresentanti. Così, negli anni, con la crescita del Primo Maggio precario si è assistito anche alla nascita di nuovo di uno sport: se devi parlare della MayDay, parlane male.

E via col liscio: ravers, writers, devastatori, teppisti, drogati, scappati di casa, senza-meta, compagni che sbagliano, compagni che sballano, compagni che ballano.
Parole, parole e parole… sparate per denigrare e sminuire, che però nel loro insieme, lo ammettiamo, descrivono bene i giovani di oggi – il pluricitato precariato metropolitano – e ci convincono, dato che lo vediamo ogni giorno dall’interno, che è proprio così; la MayDay ogni anno fa il pieno perchè è una manifestazione aperta, oceanica, che parla un linguaggio fresco, politicamente nuovo ed incisivo e che si porta in seno tutte le contraddizioni proprie delle nuove generazioni. E le affronteremo tutte queste contraddizioni, una per una. I risultati però sono netti e positivi. Oltre la MayDay, ogni anno, sono molte centinaia coloro che si rivolgono ai Punti San Precario aperti nella città per dare battaglia sul proprio luogo di lavoro. Una sinergia virtuosa che fa leva sul linguaggio per rinnovare e rimpolpare le pratiche del conflitto.

Il pezzo forte di quella MayDay 2007 è il free&free press City of Gods, un prodotto editoriale della rabbia precaria, che è già al quarto numero, per un totale di 100.000 copie distribuite principalmente nelle metropolitane, e come potete vedere è un concentrato di sapienza e cattiveria precaria. Esce con le edizioni di Milano, Roma, Bergamo, Livorno e racconta la precarietà dal punti di vista del protagonismo precario, non dalla sfiga.
Quell’anno sembra che l’isolamento della MayDay debba terminare, uno spiraglio si apre fra le maglie dell’embargo mediatico, pure il manifesto pubblica 4 pagine di City of Gods nell’edizione del primo maggio… E la sera dopo la manifestazione, scoppia la bagarre: il subvertising della campagna della Cgil ha infastidito i piani alti del sindacato più alto d’Italia. Il manifesto si scusa (con la Cgil), prostrandosi, ci dà degli stronzi, dei cattivoni in malafede, e fa uno due o più pezzi per chiedere scusa (alla Cgil) mentre il sindacato minaccia di affondare il quotidiano comunista che naviga già in cattive acque. Proviamo a replicare, ma la nostra risposta, che viene pubblicata fra le lettere, viene tagliata e contenuta da una premessa (loro) e da una conclusione (loro) in cui ripetono le scuse (alla Cgil).

Perchè questo momento amarcord? Perchè i precari hanno la memoria lunga e la campagna “Disposti a tutto”, le frasi della Camusso a RadioPopolare, i vaneggiamenti sul “culto di San Precario” riportati da Repubblica ci raccontano di un’Italia in crisi, dove le “istituzioni di una parte della sinistra sindacale e mediatica” affilano le lame per riprendere l’offensiva esattamente da quel punto, puntando ad un’invasione di campo giocata tutta sui linguaggi  (artefatti da agenzie di comunicazioni) e sulla spinta mediatica (pagate a fior di abbonamenti e finanziamenti).
Che male c’è, potrebbe dire qualcuno? La domanda è giusta ma la risposta è scontata: costoro sono per l’abolizione del precariato, espressione che sottointende una bestialità reazionaria (immaginate se nella fine dell’Ottocento qualcuno si fosse permesso di dire che andava abolito il proletariato…) per due motivi:

1) perchè si ostina a non tenere conto delle profonde trasformazioni che la società italiana ha subito negli ultimi trent’anni – trasformazioni pessime per i lavoratori, e non certo per colpa della MayDay – perorando un’ipotesi di ritorno al passato che non sta ne in cielo nè in terra e che sa molto di restaurazione finalizzata al recupero del proprio potere politico (negli ultimi tempi decisamente diminuito). Potere che verrà utilizzato per ottenere nuovi diritti per tutti? Ma va là: potere che verrà sfruttato, potete scommetterci, per strappare una maggior quota azionistica nel patto sociale per lo sviluppo che la Cgil sta contrattando con la Confindustria (produttività , competitività, e bla e bla e blablablà);
2) perchè dall’espressione “abolire il precariato” si evince che la parola dei precari (il cui insieme costituisce il precariato) in fondo in fondo non ha peso, perchè in prospettiva essi non dovranno più esistere, e quindi rappresentano un’escrescenza transitoria, casuale, e il loro apporto alla costruzione delle battaglie per il futuro non può che essere occasionale.

Noi la pensiamo diversamente, siamo precari, rappresentiamo le generazioni più o meno  giovani che hanno pagato quel poco di ricchezza che questo paese ha prodotto, siamo connaturati alla metropoli, ovvero alle parti connesse col tessuto globale in questa italietta provinciale. Quindi devono essere le nostre parole e le nostre rivendicazioni la base su cui si costruisce l’alternativa.

Stop. Il resto sono cazzate.

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