Salari e consumi: è debacle

Vi segnaliamo una ricerca (sotto) fatta dall’Ires cgil oramai “vecchia” di un anno e nel medesimo tempo vi rimandiamo a questo articolo fresco fresco. Il quadro d’insieme è chiaro. La precarietà trasforma l’Italia. Ai redditi da lavoro, quelli sudati per intenderci, tocca una quota di ricchezza sempre minore. I profitti invece vanno a gonfie vele alla faccia della crisi. Il potere d’acquisto dei salari scende mentre il 10% della popolazione si spartisce il 50% della ricchezza nazionale. Le valutazioni dei dati dello studio dell’ires cgil sono spassose. Il crollo del potere d’acquisto, si legge, è dovuto a “l’inflazione programmata a metà di quella effettiva [..] i ritardi nei rinnovi contrattuali, la mancata restituzione del fiscal drag, la scarsa redistribuzione della produttività e, soprattutto, le distorsioni del sistema fiscale… ” Pazzesco! In altre parole scopriamo che una buona fetta di responsabilità cade sulla cgil stessa cgil che nel ‘ 93 firmò il patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione che fra le altre cose – una volta abolita la scala mobile – agganciava i salari all’inflazione programmata (sempre minore di quella reale) e allungava la durata dei contratti nazionali da due a quattro anni. Con Treu del 97 il pacco è servito. Con l’istituzionalizzazione della precarietà il lavoratore si trova in una situazione di debolezza rispetto  alle imprese. Ad essere sacrificate sono le nuove generazioni, ma nel breve periodo grazie ad un’ondata inflazionistica senza precedenti tutti – ma proprio tutti! – coloro che vivono del proprio lavoro si ritrovano ad essere più poveri. Non c’è molto da aggiungere…..

L’Ires Cgil ha registrato «una crescita smisurata delle diseguaglianze» tra salari e profitti. In 14 anni si sono verificati per gli imprenditori incrementi del 65%. Per i dipendenti solo del 5%. E al Sud va sempre peggio.

Tra salari e profitti i conti non tornano e la contrattazione, avviata nel ’93, da sola non basta a riportare le voci di bilancio a pareggio. è il risultato dell’indagine conoscitiva promossa dall’Ires-Cgil, l’istituto di ricerche economiche e sociali del sindacato, presentata ieri in audizione al Senato presso la commissione XI, Lavoro e previdenza. Un lavoro di analisi sul livello dei redditi di lavoro e sulla redistribuzione della ricchezza in Italia negli ultimi 14 anni, dal 1993 al 2008, che certifica nero su bianco una «crescita smisurata delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito tra lavoro e profitto che fa dell’Italia il sesto Paese più diseguale d’Europa».

Dal 1993 al 2008 – si legge nel documento – la crescita dei profitti nelle grandi aziende è stata del 67% mentre per i salari lordi solo del 5%. «Un dato che si commenta da sé», secondo Agostino Megale, presidente dell’Ires-Cgil e segretario confederale. Una situazione che peggiora addirittura se rapportata a un periodo più breve: nel solo 2002-2008 il reddito disponibile per imprenditori e liberi professionisti è cresciuto mediamente tra i 9.000 e i 10mila euro; per gli impiegati e gli operai tale reddito si è ridotto invece di circa 1.400-1.600 euro (1.599 euro per i salari e 1.681 per gli stipendi) a fronte di un guadagno di 9.143 euro per professionisti e imprenditori.

Il dato diventa ancora più significativo se si misura la dinamica dei compensi dei primi 100 manager italiani la cui crescita dei redditi è stata mediamente 100 volte oltre i livelli medi dei lavoratori dipendenti: con il compenso dei 100 top manager italiani si possono pagare i salari di 10mila lavoratori. «Tutto ciò – prosegue il rapporto – in un Paese nel quale sono circa 7,5-8 milioni i pensionati che guadagnano meno di 9001.000 euro e sono 13 milioni i lavoratori dipendenti che guadagnano meno di 1.300 euro netti, e di questi 13 milioni ben 7 milioni guadagnano meno di 1.000 euro e la maggioranza è rappresentata da donne». Se a questo ci aggiungiamo «un’espansione della domanda interna fondata sull’indebitamento delle famiglie di operai e pensionati che vincola circa il 50% del reddito vuol dire che la metà di questo è impegnato a pagare i debiti e l’altra metà a mantenere la famiglia».

L’Italia risulta così essere la sesta nazione “più diseguale” tra i Paesi Ocse nella distribuzione del reddito: il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% dell’intera ricchezza netta. Il 50% di queste infatti si trova sotto la soglia dei 26.062 euro annui. Il 10% sopra i 55.712 euro. Ponendo il reddito familiare medio pari a 100, il reddito delle famiglie di operai risulta inferiore di 17,6 punti (rappresentando l’82,4% della media), mentre quello delle famiglie con a capo un imprenditore risulta superiore dell’80%. Un ulteriore elemento di disuguaglianza risiede nelle basse retribuzioni del Mezzogiorno (la retribuzione media annua lorda nel 2008 nel Nordovest è stata di 29.800 euro, al Nordest di 28.900 euro, al Centro di 28.300 euro e nel Mezzogiorno di 24.500 euro) e nelle differenze tra dipendenti nelle grandi imprese e impiegati nelle piccole aziende tra i quali il divario salariale medio è di 8.400 euro.

L’inflazione programmata a metà di quella effettiva, l’assenza di price cap e del controllo nel change over dell’euro, i ritardi nei rinnovi contrattuali, la mancata restituzione del fiscal drag, la scarsa redistribuzione della produttività e, soprattutto, le distorsioni del sistema fiscale sono le principali cause della faticosa rincorsa del potere d’acquisto delle retribuzioni: «Nel periodo 1993-2008 – prosegue il rapporto – i lavoratori dipendenti hanno lasciato al fisco 6.738 euro cumulati (in termini di potere d’acquisto), poiché le retribuzioni nette sono cresciute di 3,5 punti in meno delle retribuzioni di fatto lorde (per il lavoratore single le retribuzioni nette sono cresciute del 43,3% e per il lavoratore con carichi di famiglia del 44%).

«L’inflazione – hanno spiegato i tecnici dell’Ires – è cresciuta del 41,6%, le retribuzioni contrattuali del 41,1%, mentre le retribuzioni di fatto del 47,5%. Lo Stato – ha sottolineato Megale – ha dunque beneficiato di circa 112 miliardi di euro, tra maggiore pressione fiscale e fiscal drag. Le retribuzioni contrattuali hanno sostanzialmente mantenuto il potere d’acquisto e le retribuzioni di fatto sono cresciute di 5,9 punti oltre l’inflazione. Purtroppo però – fa notare il presidente dell’Ires-Cgil – i salari netti sono rimasti fermi mentre i prezzi aumentavano». Il fisco, dunque, ha mangiato i pochi guadagni di produttività. «La contrattazione è importante – ha concluso Megale – ma da sola non basta».

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