Precari, un domani senza certezze

A Milano flessibili l’80% dei nuovi contratti. Co.co.pro. e partite Iva: «Come vivere con 400 euro al mese?»

MILANO – Qualcuno andrebbe sotto la soglia dell’assegno sociale. Qualcun altro la supererebbe di poco. Almeno se la situazione rimarrà immutata. La pensione sta diventando un miraggio per una generazione. Cioè quella precaria. Quella dei contratti parasubordinati e governata dall’incertezza. «Più che altro la previdenza è un incubo. È un ulteriore problema alle difficoltà quotidiane». E c’è chi scherza: «Forse sarebbe meglio morire prima». Ma intanto, calcoli alla mano, per tantissimi, quando arriveranno i soldi dell’Inps basteranno solo per due settimane. O almeno nei migliori dei casi.

Quanti sono i precari
«Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale», aveva detto Antonio Mastrapasqua, presidente dell’Inps. Una battuta che ha scatenato commenti su Internet. E tanta indignazione. «Avevano promesso che questi contratti sarebbero andati a nostro vantaggio. La realtà è molto diversa».

Già ma quanti sono i giovani e i meno giovani precari? «Sono tanti. E sempre in crescita», sottolinea Andrea Fumagalli, docente di Economia politica all’Università di Pavia e impegnato nella rete San Precario. Basti pensare che in città «il 78% dei nuovi contratti sono atipici». Un dato che per l’Osservatorio del mercato del lavoro della Provincia è ancora più alto: «Fino al 90%». Insomma la precarietà è una «condizione» per quasi tutti gli under 40. E oltre. «Non è più una tendenza, ma una realtà in tutte le metropoli. A cominciare da Milano, dove c’è una grande svalorizzazione del lavoro, cioè non viene pagato adeguatamente», continua Fumagalli. Soprattutto di quello cognitivo. «Dove si usano le capacità intellettuali». E gli esempi sono tanti: dalla moda al design. Passando per insegnanti e ricercatori.

Continuità di reddito
La parola d’ordine è cambiare. Partendo da «interventi sul mercato del lavoro e sulle politiche di welfare». Per esempio? «Garantire una continuità di reddito. Poi i servizi: mobilità, scuola, Internet. Tutto quello che può fare autoformazione». È quello che chiedono gli attivisti di San Precario, che raggruppa lavoratori atipici e cerca di tutelarne i diritti. Per questo hanno incontrato i quattro candidati alle primarie del centrosinistra in vista delle elezioni comunali. Da Pisapia, Boeri, Onida e Sacerdoti, hanno voluto chiarimenti: «Per quel che riguarda lo Stato sociale».

Una vita sospesa
Ma in attesa di cambiare, c’è chi, ogni giorno cerca di sopravvivere. «Cosa vuol dire essere precario? Tanti mal di pancia e insonnia. È logorante da un punto di vista fisico. Ci si sente precari in tutto». Luca Loizzi, 36 anni, professore di Lettere, riassume così un sentimento condiviso da migliaia di persone. «Ho cominciato a lavorare nel ’97 in una scuola privata. Tutto in nero». Poi la scuola di formazione e il primo «vero» contratto. «Ogni anno un posto nuovo, con i colleghi che ti trattano come l’eterno ragazzo. Anche se oramai hai anni di servizio». Poi ci sono le rinunce: «Niente auto, poche uscite». Quando si parla di famiglia, sospira: «Meglio non averla. Già è difficile in queste condizioni».

Lo sa bene Giuseppina Mazzacuva, 32 anni operatrice telefonica, un figlio e un altro in arrivo. «Mi è scaduto il contratto a marzo e visto che sono incinta non mi hanno richiamato». Il tema della maternità precaria è insidiosa e soprattutto «poco tutelata». Alla pensione non ci pensa: «E come faccio? Quella privata costa e non posso fare altre rinunce. Un mutuo sulle spalle, i bambini, e tante preoccupazioni.

Diciassette contratti e tre cause
Gli stessi timori che ha Ruggero Ricciardi, 29 anni disoccupato dopo anni in Fiera. «Non sono stato rinnovato dopo una protesta perché non ci pagavano». E ora è a caccia di un lavoro, ma «c’è la crisi». L’elemento ricattabilità è ricorrente per ogni contratto «atipico». E in una giungla di Co.co.co, Co.co.pro, interinale e tempo determinato, orientarsi è complicato. «Prima di ottenere l’indeterminato, ho firmato 17 contratti e ho fatto tre cause, tutte vinte», spiega Stefano Mansi, 40 anni, impiegato comunale, due figli e il sogno di fare il giornalista. «Lo facevo, poi è arrivata la famiglia e, per fortuna, sono riuscito a farmi assumere». Una cosa vuole sottolineare: «Non è una scelta fare il precario. Oramai è una condizione di un’intera generazione». Lo sa bene anche Barbara Falciai, 42 anni, educatrice: «ho perso il conto di quanti contratti ho firmato. La pensione? Da anni me ne sono dimenticata».

Benedetta Argentieri
05 novembre 2010

I conti non tornano

La frase più terribile, ma anche ridicola è quella che ci dice che chi ha iniziato nel 96 non arriverà probabilmente al valore dell’assegno sociale. Si tenga presente, per accorgersi della bestialità, che l’utilizzo dei cococo (poi cocopro, alcune volte lap) è precedente alla legge Treu del 97 e riguardava principalmente collaboratori altamente qualificati. Solo dopo il pacco-pacchetto Treu l’uso dei parasubordinati si è massificato e dequalificato.  In pratica in quella frase “a rischio di non arrivare all’assegno sociale chi ha iniziato nel ’96”  si annida l’osservazione implicita ma non esplicitata che il 99% dei cocoche non avrà la pensione se non quella sociale. Mamma mia!

Dal corriere.it

Secondo la Cgil chi prende 1.240 euro al mese dopo 40 anni riceverà un assegno di 508 euro. Le minipensioni dei parasubordinati Avranno appena il 36% del reddito
A rischio di non arrivare all’assegno sociale chi ha iniziato nel ’96

ROMA – Lo spettro è quello dell’assegno sociale, oggi pari a poco più di 400 euro, che l’Inps eroga ai bisognosi. Molti giovani lavoratori atipici, se non escono dalla trappola della precarietà, rischiano di avere questo sussidio invece della pensione. La questione della previdenza dei parasubordinati è arrivata la scorsa settimana in Parlamento e finisce oggi in piazza. L’Italia dei Valori, primo firmatario il capogruppo Felice Belisario, ha presentato in Senato un’interrogazione urgente ai ministri del Lavoro e dell’Economia, Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti. Nella richiesta di chiarimenti al governo il partito fa riferimento ad una frase attribuita al presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, che con una battuta avrebbe reso l’idea del problema: «Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale». Quale che sia la verità, questa mattina, invece, il Nidil-Cgil, sindacato dei lavoratori atipici, ha organizzato una iniziativa davanti all’Inps di Roma Centro, a piazza Augusto Imperatore, insieme al patronato Inca e al dipartimento giovani della stessa Cgil. A fare i conti saranno gli esperti del sindacato, spiega la confederazione guidata da Guglielmo Epifani.

È evidente che, soprattutto per i collaboratori (prima co.co.co. e poi co.co.pro.) che hanno cominciato nel 1996, quando fu istituita la speciale gestione presso l’Inps, e che non riescono a trovare un posto fisso il futuro riserva una pensione da fame. Nei primi anni della gestione, infatti, ai parasubordinati senza altra copertura previdenziale pubblica si applicava un’aliquota contributiva del 10-12%, poi salita gradualmente fino al 26,72% in vigore dal primo gennaio 2010. Essendo i redditi di questa categoria di lavoratori generalmente bassi e discontinui (tra un contratto e l’altro passano mesi) è chiaro che col metodo contributivo, integralmente applicato a tutti coloro che hanno cominciato a lavorare dopo la riforma Dini, sarà difficile maturare una pensione superiore all’assegno sociale (oggi 411 euro al mese). Nel frattempo, però, il paradosso è che con i contributi che i parasubordinati versano al loro fondo Inps, in attivo di oltre 8 miliardi (perché finora incassa solo ed eroga pochissime presta) si pagano le pensioni alle categorie che non ce la farebbero con i soli versamenti dei loro iscritti, dai dirigenti d’azienda ai lavoratori degli ex fondi speciali: telefonici, elettrici, trasporti.

Per fortuna le prospettive previdenziali migliorano per i parasubordinati che hanno cominciato a lavorare in questi ultimi anni (l’aliquota era per esempio salita già al 23,5% nel 2007), ma la possibilità di raggiungere una pensione dignitosa dipende fondamentalmente dal reddito percepito durante gli anni di lavoro e dalla sua continuità (e per questo le donne sono svantaggiate). In ogni caso, l’assegno sarà in proporzione sempre inferiore a quello di un lavoratore dipendente, che paga il 33% di contributi. Insomma le variabili sono troppe, spiega l’Inps, senza contare che di regola la condizione di parasubordinato non è a vita e quindi non avrebbe senso, continua l’istituto, stimare la pensione su pochi anni di contribuzione da parasubordinati.

Il problema è davvero serio per chi non riesce ad uscire dalla precarietà. La crisi aggrava il fenomeno. Il vicedirettore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in un recente intervento al convegno di Genova della Confindustria ha osservato che «solo un quarto circa dei giovani tra 25 e 34 anni occupati nel 2008 con un contratto a tempo determinato o di collaborazione aveva trovato dopo 12 mesi un lavoro a tempo indeterminato o era occupato come lavoratore autonomo, mentre oltre un quinto era transitato verso la disoccupazione o era uscito dalle forze di lavoro».

Se l’Inps non fornisce previsioni sulle pensioni dei parasubordinati, altri lo fanno. Filomena Trizio, segretaria generale del Nidil-Cgil, spiega che i suoi uffici hanno elaborato due esempi. Il primo riguarda un parasubordinato che ha cominciato nel ’96 e il secondo uno che comincia nel 2010. Per entrambi si ipotizza che tra un contratto e l’altro ci sia circa un mese di non lavoro all’anno, che restino in attività per 40 anni, che abbiano una retribuzione iniziale di 1.240 euro al mese e che vadano in pensione a 65 anni. Il primo, quello svantaggiato da contribuzioni iniziali più basse, avrebbe una pensione pari al 41% dell’ultimo reddito, cioè 508 euro al mese, il secondo al 48,5%, ovvero 601 euro. «Per arrivare a un tasso del 60% – dice Trizio – bisogna ipotizzare che questi collaboratori dopo i primi 5 anni diventino dipendenti». Infine, va considerato che questi lavoratori, dati i bassi compensi che mediamente ricevono, non hanno di solito le risorse per farsi una pensione complementare. Col patto sociale sottoscritto col governo Prodi, ricorda Trizio, «era stato sancito l’impegno di garantire alle carriere lavorative discontinue un tasso di sostituzione del 60%, ma con questo governo non se n’è fatto nulla». Anche secondo Maurizio Petriccioli, segretario confederale della Cisl, bisogna «rafforzare la contribuzione figurativa per i periodi non lavorati a fronte di disoccupazione, maternità e lavoro di cura familiare».

Stime più favorevoli provengono invece da Progetica e dal Cerp. La prima, società di consulenza specializzata nella finanza personale, ha fatto alcune elaborazioni per il supplemento Pensioni del CorrierEconomia del 29 marzo scorso. Si ipotizzano tre parasubordinati che abbiano cominciato a lavorare a 25 anni: il primo 10 anni fa, il secondo 5 e il terzo nel 2010. Tutti e tre si prevede che arrivino a fine carriera con un retribuzione lorda di 36 mila euro. La loro pensione, secondo Progetica, oscillerà da un minimo del 36% dell’ultimo stipendio, in caso di ritiro a 63 anni, a un massimo del 62% per il giovane che comincia adesso e va in pensione a 65 anni (il 55% invece per chi ha cominciato 10 anni fa). Per le donne, che in media guadagnano un po’ meno e hanno periodi di non lavoro maggiori (soprattutto in caso di maternità) le stime sono un po’ più basse: tra il 36 e il 57% dell’ultima retribuzione.

A conclusioni simili arriva anche uno studio del 2008 del Cerp, il centro di ricerche sulla previdenza diretto da Elsa Fornero. Il tasso di sostituzione oscillerebbe infatti il 49 e il 53% ritirandosi a 60 anni, rispettivamente dopo 35 e 40 anni di attività. Ma la ricerca del Cerp è interessante soprattutto perché giunge alla conclusione che, in media un parasubordinato perde, rispetto a un lavoratore dipendente che paga il 33% di contributi, tra l’uno e l’uno e mezzo per cento all’anno sull’importo della pensione.

Enrico Marro

La Francia sciopera ad oltranza.

Da repubblica. Pensioni, pugno di ferro di Sarkozy “Sbloccare i depositi di carburante”
Il presidente ordina la riapertura delle strutture occupate durante la protesta contro la riforma. E promette: “Andiamo avanti con la legge”. Ancora tensione davanti alle scuole, scontri a Nanterre. Disagi negli aeroporti. Assediato dai manifestanti il principale deposito di autobus a Rennes

PARIGI – Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha affermato in Consiglio dei ministri di aver dato l’ordine di sbloccare “tutti i depositi” di carburante di Francia occupati nel corso delle proteste contro la contestata riforma delle pensioni 1 “per ripristinare al più presto una situazione normale” nel Paese. E ha confermato: “Porterò a termine la riforma delle pensioni perché il mio dovere in qualità di capo di Stato è quello di garantire ai francesi che loro stessi e i loro bambini potranno contare sulla pensione”. Ma la protesta non si ferma. Nuovi incidenti sono scoppiati stamani a Nanterre, vicino a Parigi, a margine di una manifestazione di circa 200 studenti contro la riforma.

Sarkozy parla al governo. “Per milioni di cittadini francesi i trasporti sono vitali. Si tratta di una libertà fondamentale. E in questi ultimi giorni molti di loro hanno dovuto affrontare i problemi di rifornimento di carburante che hanno toccato una parte delle stazioni di servizio”, ha detto Sarkozy durante il Consiglio dei ministri di oggi. “Se non viene messa fine alle protesta in tempi rapidi, questi disordini che cercano di paralizzare il Paese potrebbero avere ripercussioni sull’impiego e sull’economia”, ha avvertito il presidente. “Ho quindi dato istruzioni – ha affermato – affinché tutti i depositi di carburante siano sbloccati per riportare la situazione al più presto alla normalità”. Questa notte la polizia ha sbloccato tre depositi di carburante dell’ovest della Francia, a Donges, a Le Mans e a La Rochelle. E il ministro dell’Interno Brice Hortefeux ha avvertito che nuovi interventi di questo tipo saranno effettuati per tutta la giornata di oggi.

Ancora tensione e scontri. E’ passata una settimana dall’inizio della mobilitazione contro la riforma del sistema previdenziale, ma le proteste continuano. Sono stati bloccati gli aeroporti di Nantes, Clermont e Tolosa. Secondo una fonte aeroportuale, stamane a Orly sono stati annullati un quarto dei voli, mentre a Roissy la situazione nelle prime ore del mattino era normale. Il principale deposito di autobus a Rennes è stato assediato da una cinquantina di persone che hanno impedito ai mezzi di circolare in città. In risposta all’appello dei sindacati, decine di dimostranti hanno anche bloccato l’entrata di un importante deposito a Port-de-Bouc. Continuano le proteste anche nelle scuole. Da lunedì scorso il liceo di Nanterre Joliot-Curie  è teatro di scontri tra giovani e polizia. Un’automobile è stata data alle fiamme oggi. Mentre sono stati danneggiati alcuni edifici, tra cui anche la sede del Consiglio generale del dipartimento delle Hauts-de-Seine, che fu presieduto da Nicolas Sarkozy fino al 2007.

(20 ottobre 2010)

Lavora, riproduci, taci: la crisi e l’attacco ai diritti

1. Il ritorno della Manchester dell’800.

La vertenza in corso nello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco presenta alcuni elementi noti e insieme aspetti nuovi. Utilizzando il classico strumento del ricatto dei licenziamenti (la minaccia della chiusura dell’impianto con delocalizzazione in Polonia), la Fiat pretende di ottenere l’aumento del numero dei turni fino a 18, la riduzione della pausa mensa, la rinuncia preventiva al diritto di sciopero. In tal modo, sulla pelle degli operai, può essere mantenuta la promessa dei vertici aziendali di aumentare la produzione italiana (1 milione e 400.000 vetture).
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