Sciopero precario contro il Cavaliere

È fuori di dubbio che Berlusconi sia una persona umanamente spregevole.
Però il disprezzo che proviamo per lui rischia di non farci capire perché questo individuo stia governando da quasi vent’anni. Di più, questo disprezzo rischia di nasconderci le ragioni profonde della “decadenza” italiana. Berlusconi è un progetto politico, messo in campo nel 1993 da un insieme di poteri economici e non solo, con lo scopo di governare il prevedibile declino economico che l’Italia avrebbe subito con l’avanzare della globalizzazione e la fine della supremazia dell’economia statunitense.
Un declino caratterizzato da impoverimento generale e peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Questo progetto neoautoritario parte dal presupposto che lo stato dell’economia italiana non è in grado di reggere l’urto della globalizzazione per una carenza intrinseca dei suoi modelli produttivi, e si prefigge di scaricare tutto il peso sulle spalle dei lavoratori, mantenendo inalterati rendite e profitti. Berlusconi, un imprenditore legato a poteri economici, non da ultimo quelli mafiosi, nonché rappresentante di un impero mediatico e quindi cerniera nella gestione dei flussi informativi e (sub)culturali, appare l’uomo giusto al posto
giusto.

Questo impoverimento generale, imposto socialmente e culturalmente prima ancora che legislativamente, si chiama precarietà. Di questo fenomeno hanno fatto parte a pieno titolo tutte quelle realtà che rispondono a interessi economici analoghi: da qui il non-paradosso delle leggi che hanno introdotto la precarietà, votate dal centro-sinistra. Ma la precarietà non è una questione contrattuale (Mirafiori lo dimostra una volta per tutte, anche i lavoratori a tempo indeterminato sono precari). La precarietà è un modo di fare profitti anche in periodi in cui l’economia cresce poco o niente. Noi diciamo anche che la precarietà è esistenziale, cioè si ripercuote sui soggetti sociali dividendoli: i
disoccupati diventano nemici degli atipici, che competono con i garantiti, tutti contro i migranti. Una frammentazione profonda, culturale, che è la base della nostra società razzista, individualista, furbetta quando non apertamente mafiosa. La lotta alla precarietà deve invertire questo processo e creare un nuovo linguaggio fatto di interessi comuni, cittadinanza e diritti.

Torniamo al “nostro” presidente, che investito da cotanta “responsabilità”, ne è rimasto letteralmente drogato e ci sta fornendo uno spettacolo decadente che ricorda il pasoliniano “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, con il suo miscuglio di sesso e potere sfrenato. La sinistra è talmente invischiata in questa ragnatela fatta di tele mediatiche, giochi di potere, corruzione, da essere impotente dal punto di vista politico e incapace da quello sindacale (gli “errori” dei confederali sono molteplici e di gravissima portata, ma su questo, per adesso, soprassediamo).

Bene, saranno i fatti egiziani e tunisini (siamo pur sempre mediterranei), sarà la misura colma, sarà la crisi, ma oggi si comincia a percepire che il moto di indignazione si sta facendo rivolta. Le tele del potere sono ancora fitte, appiccicose e ben tese eppure si percepisce una messa in gioco che va al di là della testimonianza un po’ girotondina. Sono tanti i percorsi di opposizione reale messi in campo:
gli Stati generali della precarietà, la Fiom (con Uniti contro la crisi), il radicarsi e il radicalizzarsi di fenomeni sociali spontanei come le lotte sull’ambiente e sui beni comuni (in particolare sull’acqua) che sorgono e raccolgono consensi e partecipazione ovunque, il ribollire delle esperienze antiberlusconiane nate dalla rete, fino alla manifestazione delle donne del 13 febbraio, e altri ce ne sarebbero. Tutti coinvolgono corpi, idee, desideri e rabbia. Da più parti si invoca un nuovo protagonismo delle donne, della cultura, della precarietà, dei migranti e per noi questo è sintomatico della ricerca di un nuovo inizio, di nuovi riferimento, di discontinuità. Ottimo, non sarà con i vecchi arnesi istituzionali che ci libereremo da questo potere. Da ogni parte la spinta dal basso si fa più decisa. E questo ci fa ben sperare: un cambiamento non avverrà mai da una semplice invocazione, per quanto piena di speranza e ben formulata (alla Obama per intenderci), bensì è necessario un nuovo protagonismo che sorgendo dal basso dia vita a nuove pratiche e sentimenti condivisi.

Abbiamo sentito che la spinta verso uno sciopero generale si sta facendo sempre più fortelegge qui; e non solo uno sciopero generale, ma anche politico. Noi siamo d’accordo, lo diciamo dagli scorsi Stati generali della precarietà, che hanno visto riunirsi per due volte centinaia di precari e precarie di tutta Italia. Ma abbiamo alcune puntualizzazioni da fare. Uno sciopero generale per essere veramente tale deve coinvolgere coloro che non sono tutelati dal diritto di sciopero: i precari e le precarie. E questo significa migranti, lavoratori atipici, tempi determinati, disoccupati, false partite iva, insomma tutti coloro a cui il diritto di parola, ancor prima che di sciopero, è negato. E perché lo sciopero sia politico, ovvero contro il governo Berlusconi e tutto ciò che rappresenta, questo sciopero deve parlare di precarietà.
L’Italia ha bisogno di uno sciopero contro la precarietà, che nasca dalla precarietà, che agisca nella precarietà, che parli di reddito e diritti. C’è bisogno di uno sciopero precario.

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