I precari con la giacca

Alias – 1 Maggio 2010

REPORTAGE L’INTERMITTENZA DEL LAVORO NELLA MILANO DA BERE

Dai freelance ai pubblicitari, agli intermittenti dello spettacolo, prove tecniche di organizzazione per figure lavorative nate con il decentramento produttivo e cresciute con il capitalismo cognitivo. Tra riduzione del reddito e licenziamenti, parte nella città lombarda «welfare for life», la compagna della MayDay precaria.

di Cristina Morini

Professionisti? Sì, ma invisibili. Dicono: «Non ci vede il sindacato, non ci vede la sinistra che ha mantenuto, sempre, lo sguardo fisso sulla fabbrica e sul lavoro dipendente. Nomina i precari, figurandoseli, però, come disoccupati, gente a spasso oggi, in vista di un lavoro domani». In generale, i «lavoratori autonomi» vengono considerati una casta di privilegiati. Viceversa, sono schiacciati dai committenti, piegati dalla crisi economica, privi di tutele e di diritti. Lavoratori «autonomi», oppure lavoratori «liberi» di autosfruttarsi? Certa è una cosa: la presunta «atipicità» dei loro contratti va rivisitata sin a partire dal lessico, poiché tale «atipicità» è diventata regola, norma dominante. Nel presente si sono anche chiamati «lavoratori della conoscenza». Hanno formazione elevata, lavorano nel terziario avanzato, nell’editoria, nei giornali, nella moda, nella pubblicità. Sono web designer e freelance. Più ancora che dai processi di outsourcing e downsizing sono stati partoriti dal capitalismo cognitivo, dalle nuove tecnologie, dall’economia di rete, dalla scolarizzazione di massa. Sono passati più di dieci anni da quel «lavoro autonomo di seconda generazione » che, con Sergio Bologna, ha aiutato a capire le contraddizioni di questo processo che ha accompagnato una progressiva riduzione del numero dei lavoratori dipendenti. Oggi, la tendenza è in aumento poiché questo genere di modalità di erogazione del lavoro è la modalità in cui si esprime l’attuale paradigma del lavoro individualizzato e frammentato, centrato su saperi, relazioni, differenze. All’interno di questo quadro, il rischio esistenziale sembra essere stato liberamente sottoscritto dalle nuove generazioni di «autonomi», all’interno di un patto che ha svincolato lo «stato sociale» dalle funzioni di garanzia sulla sussistenza del lavoratore. Questa nuova generazione di lavoratori autonomi è giovane e più spesso donna. Svolge professioni che si sarebbero dette «intellettuali» in un passato ancora recente in cui godevano di un elevato grado di «autonomia» e di possibilità economiche. Nello scompaginamento delle categorie novecentesche, i lavoratori autonomi della conoscenza si sono impoveriti e non sono più padroni del loro tempo. Tuttavia per il sindacato, ma anche per lo Stato, incarnano l’incoerenza paradossale del non essere «classe operaia» nettamente contrapposta al «mondo degli interessi degli imprenditori». Le partite Iva in Italia sono circa 8 milioni (marzo 2009), con un aumento del 177% rispetto all’anno precedente (stime dell’Agenzia delle entrate). Due milioni risultano inattive, tuttavia ne restano ancora sei, tra microimprese e professionisti. Viceversa i co.co.pro, secondo l’Inps, da gennaio 2008 sono calati da 1.932.693 a 1.515.530 unità. E altri 664 mila collaboratori a progetto – coloro che hanno un reddito inferiore ai 30 mila euro annui – potrebbero sentirsi «portati» a passare alla partita Iva poiché essa viene promossa come più conveniente dal lato fiscale. In realtà, è soprattutto la stretta ispettiva sulle aziende a generare questo movimento. A Milano e in Lombardia il 63,2% degli occupati lavora nei servizi, il 19,1% nel terziario cognitivo-immateriale. Questi ultimi contribuiscono ormai al 29,3% del valore aggiunto dell’area contro il 28% delle attività industriali. Il lavoratore cognitivo lombardo guadagna in media 26.700 euro lordi (2006) contro i 27.600 che guadagnava nel 2000, con una perdita di 3,9 punti percentuali. Massimo Viegi, fotogiornalista, ha avviato insieme a molti altri colleghi «autonomi», una protesta, con la creazione di una rete nazionale, Altapressione, contro il dumping dei prezzi a cui è sottoposta la categoria. In un passato non lontano i fotogiornalisti erano in gran parte assunti nei giornali, oggi sono tutti «partite Iva» e con in più l’aggravio di dover reggere una doppia intermediazione, quella con l’editore e quella con l’agenzia fotografica. «Il rischio maggiore in questa situazione è la competizione sul prezzo del lavoro svolto», spiega. «Le grosse agenzie pagano cinque euro a foto. Si è confuso il libero mercato con il mercato selvaggio. Tra noi ci sono fotografi – lavoratori autonomi con partita Iva – a cui viene chiesta una disponibilità 24 ore su 24, sabato e domenica compresi. Il problema principale è il livello del reddito». La «responsabilità», come abbiamo detto, cade interamente sul singolo. Il lavoratore autonomo se la assume tutta per davvero, ed essa, nelle possibilità date, si traduce in dumping. Come uscire da questo circuito perverso? Negli ultimi cinque anni la tendenza racconta di uno spostamento dai contratti co.co.pro verso la formula della partita Iva. Verso, cioè, quel «farsi impresa del singolo soggetto», tanto gettonato in Lombardia, che fa ricadere sul singolo tutti gli effetti distorsivi del rischio: «Anche nell’editoria libraria si nota l’inclinazione a sostituire i contratti a progetto o il regime di cessione di diritti con la partita Iva», dice Alessandro Vigiani, redattore editoriale. «Un co.co.pro può, in determinante situazioni, far valere la propria condizione di subordinazione non riconosciuta. L’apertura della partita Iva contribuisce a far slittare il co.co.pro. dall’area della parasubordinazione a quella della “autonomia”. Ogni eventuale problema viene schivato». Tuttavia, secondo Alessandro Vigiani «l’autonomia del lavoro autonomo è un gioco di parole, un concetto fittizio. Il fatto di auto-convincerti che fai un lavoro gradevole è un aggravante che ti condiziona e fa inciampare la possibilità di progettare percorsi rivendicativi comuni». Non la vede così Alfonso Miceli, formatore, vicepresidente di Acta in rete, «Associazione consulenti del terziario avanzato» di Milano: «La scommessa è quella di acquisire sempre nuove competenze. Il lavoro intellettuale si connota per la sua creatività ed è su quella creatività che il lavoratore autonomo deve fare leva dentro un mercato del lavoro che non tornerà indietro ma viceversa segnala la tendenza verso una perdita ulteriore di posti a tempo indeterminato ». Nel frattempo, questo popolo delle partite Iva sperimenta pagamenti che sono slittati a 270, 360 giorni. Un fotocronista guadagna oggi una media di «1000, 2000 euro», racconta Viegi. Il 40% se ne va in contributi sociali e imposizioni fiscali. Stesse cifre (1000, 2000 euro lordi in media; record minimo di pagamento per revisione «a cartella»: 0,45 euro) per il mercato dei professionisti editoriali (redattori, traduttori, grafici, impaginatori, correttori di bozze) come fa notare la rete dei redattori precari che si è data un sito, Rerepre. org, con 130 iscritti. La realtà è che «siamo manovalanza intellettuale a basso costo», dice Vigiani. La realtà è che «migliaia di professionisti, da anni, lavorano senza regole, nella più completa indifferenza di qualsiasi organizzazione », sottolinea Massimo Viegi. Il sindacato, nei racconti di questa nuova generazione di lavoratori autonomi, sembra essere il vero grande assente. Alessandro Vigiani: «Il sindacato è stato inadeguato, fino a questo momento. È un’istituzione cresciuta in un mondo del lavoro che è scomparso. Dovrebbe assumere il tema del lavoro precario come dirimente, mentre per ora si è limitato organizzare qualche struttura marginale. Eppure, delegittimarlo, in questa fase, mi parrebbe sbagliato visto l’attacco complessivo a cui è sottoposto il mondo del lavoro. Va riconosciuto, dunque, ma deve modificarsi geneticamente». A sentire Alfonso Miceli di Acta «il sindacato ci pensa come quelli fortunati, mentre il passaggio delle aliquote per la gestione separata Inps dal 10 al 26% ci ha tagliato le gambe. Tra l’altro, per avere, in futuro, una pensione risibile. La prossima bomba sociale sarà proprio quella delle pensioni. La spaccatura generazionale è un altro problema vistoso di questo Paese, ed è evidente nella composizione degli ordini professionali: i giovani negli ordini professionali non ci sono. Nessuno sembra farci caso ma intanto è anche su questi temi che la sinistra perde, in Lombardia o nel Veneto. Il nostro richiamo è a insistere su un processo culturale che consenta al lavoratore autonomo di diventare davvero tale, di “autonomizzarsi”. È lui stesso che non deve fare dumping, deve imparare a contrattare, a non accettare cifre o compiti al di fuori della decenza e delle forze. Bisogna ricominciare dalla tutela di alcuni diritti universali come la maternità o la copertura in caso di malattia». Massimo Laratro, avvocato del lavoro, attivista del Punto San Precario di Milano, di Intelligence Precaria e della rete MayDay ritiene che i tariffari non servano: «Si tratta di un dato formale che non servirà se non viene accompagnato da coscienza e organizzazione. Dentro una situazione così disgregata, ci sarà sempre qualcuno disponibile a prescindere dalle norme prefissate sulla carta. Il punto di vista va invertito: il problema è darsi la forza, una forza collettiva capace di imporre alla controparte di rispettare le regole. Come primo passaggio, questi lavoratori devono essere capaci di “percepirsi”. Non siamo liberi professionisti, per noi è buona la definizione che usa per sé l’avvocato nel romanzo di Diego De Silva Non avevo capito niente: “Sono un operaio che spende un sacco di soldi per vestirsi bene e mantenere lo status sociale”. Partite Iva ad alta professionalità ma tenute con la testa sotto la sabbia, atomizzati, in una struttura reticolare che ti chiede la messa a disposizione totale del tempo di vita senza remunerartelo». Il tema a cui ritornare allora è quello «dell’eguaglianza», dice Massimo Laratro. Ricominciare dalle basi, ricostruire una cultura condivisa dei diritti a partire dal concetto di eguaglianza. Così, da Milano, la soluzione all’avvio di processi di soggettivazione che possano consentire questo maggior «percepirsi » che è base imprescindibile per riequilibrare le sorti del conflitto – vista la difficoltà a colpire direttamente imeccanismi di valorizzazione del capitalismo finanziario – diventa quella del reddito minimo incondizionato accompagnato da una serie di servizi. Un nuovo welfare, strumento che consenta l’esprimersi di questo basilare, eppure rimosso, concetto di eguaglianza. Inediti ammortizzatori sociali, misure concrete da attivare per ricomporre la frammentazione, per collegare ceti medi impoveriti e tutta l’area del precariato, in generale. La campagna Welfare for life, avviata quest’anno in Lombardia in vista del decimo anniversario della MayDay, fa perno su questa idea: deve passare il messaggio che il reddito non è una dazione di denaro che svincola lo Stato dalle sue responsabilità e rende inetto il lavoratore. La garanzia di reddito è, in un quadro come questo, un passaggio, appunto, «vitale».

Le false virtù della Cassa Integrazione

MicroMega – 19 aprile 2010

Abbiamo sentito spesso ripetere che la Cassa Integrazione italiana ha mostrato tutte le sue mirabolanti virtù nel far fronte alla crisi economica attuale.

In realtà, quello della Cassa Integrazione è uno strumento arcaico, nato vecchio, e del tutto lontano dalla logica europea, ma estremamente prezioso per mantenere lo status quo del potere italiano.

Qual è la differenza essenziale tra la Cassa Integrazione e il reddito minimo garantito in vigore in tutta Europa?

La differenza è racchiusa nella locuzione “diritto soggettivo esigibile”. Il salario di disoccupazione (chiamiamolo così, con formula generale) si ottiene nei Paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Austria, Lussemburgo, Spagna, oltre che Danimarca, Svezia, Norvegia…) senza alcuna mediazione: è appunto un diritto soggettivo esigibile. Se si è maggiorenni e disoccupati, si entra in un ufficio, si riempie un modulo e si ottiene, oltre a una somma in denaro (determinata da parametri oggettivi), mensile o settimanale, anche un aiuto (sempre in base a parametri definiti e oggettivi) per l’alloggio. Tutto libero, senza mediazioni, con la possibilità potenziale di beneficiarne in modo illimitato.

Non così in Italia. La Cassa Integrazione italiana presuppone infatti una mediazione, sindacale e governativa. È uno strumento discrezionale. Qualcuno decide se erogarla, a chi concederla e per quanto tempo. E non ne beneficiano tutti i lavoratori.

La differenza, come si capisce, è enorme.

La discrezionalità fa sì che chi ottiene la Cassa Integrazione è di fatto condannato a dipendere dal sindacato e dalla politica.

Non solo. Rispetto al salario di disoccupazione europeo, la Cassa integrazione produce lavoro e nero e disoccupazione. Il cassintegrato che trova un lavoro, infatti, perde il diritto al sussidio senza la sicurezza di riaverlo se viene licenziato di nuovo; quindi non accetterà mai dei lavori temporanei o insicuri. Mentre accetterà di lavorare in nero.

Al contrario, il salario di disoccupazione europeo, proprio perché è un diritto e non presuppone alcuna “concessione”, mette chi ne beneficia nella condizione di accettare un lavoro temporaneo o insicuro. Se va male, si fa sempre in tempo a tornare nell’ufficio, compilare di nuovo il modulo etc.

Non solo, dunque, la Cassa Integrazione sperpera denaro, ma lo sperpera producendo una serie di danni aggiuntivi: incoraggia il lavoro nero e scoraggia la ricerca di un lavoro.

Ma allora perché se ne cantano le lodi?

Perché il bisogno crea consenso. La discrezionalità della Cassa Integrazione può essere piegata a varie esigenze di clientela e di potere. Al contrario, il diritto soggettivo esigibile rende il cittadino libero e indipendente da partiti e apparati.

In un recente articolo, Tito Boeri ha rilevato che la discrezionalità della Cassa Integrazione è stata ulteriormente piegata ad usi politici e clientelari: “La Cassa Integrazione in deroga, pagata da tutti i contribuenti e non dalle imprese ed erogata con discrezionalità quasi totale della politica, è, dopotutto, un’invenzione della Lega. Ha dato più risorse al tessile della bergamasca che a molte altre aziende che avevano altrettanto bisogno di aiuto (e un futuro meno improbabile) in altre parti del paese. Nelle province dove la Lega governava, vi è stato un ricorso massiccio a questo strumento: Brescia, ad esempio, ha raccolto il 20 per cento dei fondi stanziati in Lombardia quando il suo peso sull’occupazione della Regione supera di poco il 10 per cento. Ma ci sono tanti altri trasferimenti occulti, di cui non si ha traccia”.

La logica è la stessa che al Sud è stata utilizzata per le pensioni di invalidità, che in Italia vanno a comporre l’altra voce (clientelare) che sostituisce il salario di disoccupazione. La “rivoluzione” della Lega non si è proposta di cancellare gli sprechi in nome dell’equità; no, ha preteso che il Nord, o meglio, il bacino del proprio elettorato, ottenesse le stesse forme di elemosina statale del Sud. Non diritti, ma concessioni di appartenenza.

Pensioni di invalidità e Cassa integrazione sono due colonne importanti del “consenso” in Italia. E, manco a dirlo, costano molto di più del salario di disoccupazione europeo, producendo in più degli effetti disastrosi non solo sul piano civile, ma anche su quello economico. Mentre il salario di disoccupazione europeo crea maggiore disponibilità al rischio d’impresa, la cassa integrazione e le pensioni di invalidità producono parassitismo, furbizia e corruzione.

È facile capire che se si parla poco della differenza tra Italia ed Europa nel gestire la disoccupazione è perché i partiti, i sindacati, e anche parte dell’economia, ne traggono vantaggi.

Non è assolutamente vero che in Italia la crisi è stata più dolce che in altri paesi. È vero invece che la crisi è stata più dolce con il ceto politico. Per le ragioni dette.

In Italia la crisi crea “consenso”, perché l’unica salvezza alla miseria è il clientelismo. Del resto, il modello del consenso basato sul bisogno è quello secolare della Chiesa cattolica, grande ispiratrice, culturale e non solo, della politica italiana.

di Giovanni Perazzoli

Precari, l’assegno di 700 euro fa litigare Formigoni e Penati

Ersilio Mattion da Il Giorno 18 marzo 2010

Il govematore: idea strampalata. Il rivale: i fondi si possono trovare

DUELLANO SULLE TASSE, Roberto Formigoni e Filippo Penati. E non usano il fioretto, arrivando ai limite dell’insulto. Secondo il governatore, candidato presidente del centrodestra, il suo avversario ®non capisce nulla di bilancio regionale e non conosce nemmeno le tabelline che si studiano in quinta elementare». Secondo l’ex presidente della Provincia, invece, gli attuali amministratori del Pirellone non sono neppure capaci di trovare 250 milioni, in un bilancio di circa 23 miliardi di euro, per i 30 mila lavoratori precari lombardi che hanno perso il posto di lavoro e non hanno alcuna protezione sociale».
LA POLEMICA scoppia ieri, a margine del congresso regionale della Cgil che riserva applausi a Penati e qualche fischio a Formigoni. Il candidato del Pd gioca in casa. Ma il punto è un altro: la proposta del leader del centrosinistra lombardo che, in caso di vittoria, promette di assegnare ®un buono scuola diverso non solo per chi frequenta le private e un assegno da 700 euro mensili, per un anno, a favore dei precari disoccupati». Penati fa i conti. E calcola che quest’operazione costerebbe 250 milioni. Da cià la sua logica conclusione: è possibile, dal momento che si impegnerebbe ®meno dell’uno per cento del bilancio regionale». Il candidato Pd rinfresca la memoria agli elettori: ®Ho sempre trovato i soldi rispetto alle iniziative da proporre, cosi come ho trovato 25 milioni (nel 2009, da presidente della Provincia, ndr) per aiutare 20 mila famiglie milanesi a uscire dalla crisi e per incentivare le imprese a stabilizzare il lavoro precario e a fare nuove assunzioni». I conti, perà, li fa pure Formigoni che battezza la promessa elettorale del suo sfidante come ®strampalata». Il governatore entra poi nei dettagli: I precari in Lombardia sono all’incirca 300 mila, a 700 euro per dodici mensilità sono 8 mila e 400 euro per ogni precario. Moltiplicati per 300 mila perfanno 2 miliardi e 520 milioni di euro all’anno. Dove andrà Penati a prendere i soldi per mantenere i suoi impegni? Ha una sola strada da percorrere: aumentare a dismisura le tasse regionali, sballando i conti delle famiglie e mandando sul lastrico artigiani, imprenditori, commercianti e tutti coloro che lavorano». i

Sembrerebbe….ma no

A leggersi il titolo della recensione su il sole24, di gianfranco Fabi leggi qui del nuovo libro di Treu e Ceruti, Organizzare l’altruismo, verrebbe subito da esclamare: perbacco!  “Vietato illudersi: un nuovo welfare per il dopo crisi”.  Niente di più e niente di meno: il problema e la soluzione in una frase. Per dare un taglio alla crisi è necessario ridare dignità al welfare. E’ chiaro, o per lo meno lo sembra. Addentrandosi invece nella lettura cotanto stupore si tramuta subito in delusione. Certo, questo testo vuole essere una recensione del libro sopra citato, eppure non sembra esserci niente di significativo. In pratica si afferma che



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Vietato illudersi: un nuovo welfare per il dopo crisi

di Gianfranco Fabi, da il sole24 ore

C’è una tentazione e insieme un’illusione nel guardare al futuro dell’economia e della società dopo la grande crisi degli ultimi mesi. L’illusione è quella di pensare che, prima o poi, tutto tornerà come prima e la tentazione che ne deriva è quella di aspettare perché, prima o poi, non potrà che rimettersi in moto il ciclo virtuoso dei consumi e quindi della produzione, dell’occupazione, della ricchezza.


Purtroppo non sarà così. È verosimile, nonostante tutte le exit strategy, non solo che sarà molto lungo il cammino per tornare ai vecchi livelli di crescita, ma anche che non mancheranno le tensioni sul fronte degli equilibri sociali con un preoccupante aumento delle disuguaglianze e con una disoccupazione destinata a rimanere a lungo su livelli particolarmente alti. All’interno dei singoli paesi appare così evidente la necessità di trovare nuovi equilibri di giustizia sociale: non a caso, proprio negli Stati Uniti un osservatore attento quale Paul Krugman ha spesso indicato come un elemento anomalo la scomparsa dei ceti medi e quindi l’aumento delle distanze tra i ricchi e i poveri.

Prendere atto della crisi vuol dire accettare di rimettere in discussione vecchi modelli e consolidate certezze. Lo mette in risalto il libro Organizzare l’altruismo, scritto da Mauro Ceruti e Tiziano Treu, che ha l’ambizioso sommario «globalizzazione e welfare» e pone in primo piano la necessità di tener conto che «lo sconvolgimento degli scenari globali impone di rimettere in discussione compiti e strutture del potere pubblico statale, della politica e della partecipazione democratica».

È ormai evidente che gli effetti della crisi non riguardano solo gli equilibri del sistema economico, ma toccano da vicino anche l’incapacità della teoria economica di spiegare il presente e soprattutto di interpretare il futuro. Anche perché al tradizionale concetto di rischio, in qualche modo prevedibile e calcolabile, si è affiancato quello d’incertezza, maggiormente legato alla fragilità e all’instabilità. Ma mentre il rischio fa parte, anzi è un elemento costitutivo del mercato, l’incertezza è tale da mettere in crisi sia i meccanismi della domanda e dell’offerta, sia quella fiducia negli altri e nel futuro che costituisce un elemento fondamentale dello stesso mercato.

Ecco allora che un cambio di prospettiva appare fondamentale. Ma non solo per migliorare le garanzie e quindi aumentare l’affidabilità dei sistemi di welfare, ma anche per dare al mercato la possibilità di funzionare meglio e quindi di riprendere a creare la ricchezza necessaria a finanziare efficaci e razionali politiche redistributive.

Il nostro stato sociale deve fare un salto di qualità, ad esempio, affrontando la necessità di rimediare alla grande insufficienza degli ammortizzatori sociali per i quali la spesa è pari a un terzo della media europea, lasciando peraltro scoperte proprio le categorie di lavoratori più precarie. Ma dovrebbe anche riscoprire valori come quello della partecipazione dei lavoratori al capitale delle imprese, un valore per troppo tempo sacrificato sull’altare di una conflittualità considerata dal sindacato un elemento qualificante dell’impegno sociale.