Dicono di noi #3. Le richieste degli «atipici»

Questo articolo del signor Passerini ha sollevato una piccola diatriba. Il giornalista, firma di punta del Corriere lavoro, odiava profondamente San Precario, come molti suoi colleghi d’altronde. Non abbiamo mai capito il perchè , forse quest’astio era dovuto al fatto che il santo rendeva la precarietà un pò meno truce e un pò meno sfigata? Forse il giornalista non amava scrivere editoriali a mò di premessa per gli annunci del lavoro e gli sarebbe piaciuto di più scrivere per la Nera? O forse la figura del Santo era ingombrante e riempiva quei vuoti intepretativi nei quali il Walter (Passerini) avrebbe voluto sguazzare. L’ultima  ci è parsa sempre la più azzeccata. Sentite questa.

Un giorno in preda ad un attacco d’entusiasmo (quando era felice lui, lo eravamo un pò anche noi) annuncia che alcuni precari, più svegli di quelli che si erano rimbambiti a forza di accender ceri al Santo, hanno redatto finalmente un manifesto in sette punti contro la precarietà. Noi leggiamo stupiti la piattaforma e ci guardiamo un pò smarriti, siamo nell’anno domini 2004, la città non pullula certo di precari autorganizzati che scrivono proclami. La domanda politica rimbalza nel nostro collettivo “chi cazzo sono questi” ?

Poi, piano piano mettendo in campo le nostre doti investigative (da qui nacque l’intelligence) scopriamo che i sette punti di rivendicazione sono la seconda pagina della Charta Precaria che noi stessi avevamo redatto due mesi prima (con una premessa e dieci punti rivendicativi). La ricostruzione degli eventi ci racconta questi fatti: Al Passerini la charta è arrivata dimezzata, in una bottiglia, su foglio ingiallito, scritta col sangue della staffetta a cui era stato dato il compito di ripeterla a memoria (certe informazioni non devono cadere in mano al nemico), a costo della propria vita, a Piacenza, ad altri devoti del Santo che stavano aspettando la lieta novella con ansia.

La bottiglia  probabilmente è stata trovata sulla parte selvaggia della darsena, ove tutt’ora si scorgono tribù primitive dotate di animali strani lasciati allo stato brado.  Il  lasso di tempo che corre fra la stesura, l’apprendimento a memoria, la morte della staffetta, la velocità della corrente del naviglio che ha trascinato la bottiglia, la permanenza sul ciglio dell’acqua, il ritrovamento serale, la lettura del giorno dopo (a Milano in quel periodo la notte era buia buia buia perchè il consumo dei ceri per le funzioni di San Precario assorbiva tutta la produzione mondiale e oltre), il lasso di tempo, si diceva, è proprio di 59 giorni e qualche ora. Due mesi! Il tempo esatto che è passato della charta e l’articolo del Passerini. Altro che Dan Brown!

di WALTER PASSERINI

Li chiamano intermittenti, cococo (collaboratori coordinati e  continuativi), lavoratori a progetto, temporanei, interinali, free lance.  Sono tanti e in crescita e hanno in Milano la palestra e la loro capitale.
Ufficialmente i soli cococo milanesi sono oltre 150 mila, ma nell’economia  grigia e un po’ nascosta sono di più, almeno il doppio. Li chiamano anche  atipici, perché il loro rapporto di lavoro non è standard. Loro spesso si  definiscono precari. Li troviamo nell’editoria, nella comunicazione,  nell’informatica, nella consulenza, ma anche nei call center. Questi ultimi  qualcuno li definisce i nuovi operai del computer, chiusi in capannoni e  open space, ciascuno nella propria postazione, cuffietta, schermo, mouse a  portata di mano. La crema di questo popolo delle partite Iva e delle  ritenute d’acconto è rappresentata dai knowledge workers , dai lavoratori  della conoscenza, che qualcuno con brutto neologismo chiama anche  cognitari.

Gli atipici e i cococo milanesi sono un po’ diversi dagli altri. La maggioranza sono laureati. Molte sono le donne. L’età non giovanissima,  tende in quote significative oltre i 40 anni. Oltre che un titolo di studio  hanno anche una buona capacità professionale. Non sono dei generici, sonospesso degli specialisti. Non tutti fanno il cococo per forza, per molti è  frutto di una scelta, magari temporanea, ma con una buona consapevolezza e  soddisfazione professionale. Ma se sul lavoro in senso stretto ci sono luci(anche se sulle fasce più basse aleggiano oscure nuvole, tra le quali  stipendi troppo bassi), è come cittadini che si sentono preda del buio più  fitto. Sì, perché quel che manca, e che li rende bravi professionisti ma  persone dimezzate, è l’insieme dei diritti di cittadinanza. I più svegli  tra loro hanno smesso di lamentarsi e di accendere ceri a San Precario e  hanno steso un vero e proprio «manifesto dei diritti minimi», che aiuta acomprendere perché spesso si vivano come giocatori di serie B.
Gli atipici milanesi vedono in sette punti un possibile sistema di uguaglianze, la fine dell’asimmetria con gli altri lavoratori. Al primo posto mettono il riconoscimento della malattia e degli infortuni. Al  secondo la tutela della maternità, possibile solo se si ha una posizione Inps. Al terzo posto mettono l’accesso al credito: la possibilità di avere un mutuo per la casa, per pagarsi periodi o strumenti di formazione, per acquistare software o computer. Al quarto posto mettono due elementari diritti sindacali: la rappresentanza e il diritto di riunione. Al quinto  posto la regolarità e la continuità del reddito (un’indennità tra un lavoro  e l’altro) e una qualche forma di liquidazione. Servizi e politiche attive,
anche di re-orientamento, occupano il sesto posto. Mentre al settimo vi è la questione previdenziale: come si fa ad avere una pensione con una carriera frammentata e divisa in pezzi. Atipici e cococo milanesi chiedono di poter costruire un futuro, di poter realizzare il sogno della stabilità, che non smettono di desiderare. Conoscono le lingue e sanno di computer, e hanno in mano un passaporto e un potere negoziale che li fa sentire «insider», dentro il mercato del lavoro. Ma si sentono i precari della società.

Hanno un titolo di studio e la capacità di risolvere problemi professionali. Ma fuori della mansione e della prestazione di lavoro si  sentono e sono vissuti come «outsider», i temporanei della cittadinanza.

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